In inglese l’acronimo TAB sta per Temporarily Able-Bodied, ovvero “con un corpo momentaneamente abile”. La prima volta che mi ci sono imbattuta è stato uno shock. Ho capito che certo, il mio corpo non è disabile. Al momento. Temporaneamente. Ma potrebbe diventarlo in ogni istante, e probabilmente – se invecchierò – prima o poi sperimenterò qualche tipo di disabilità.
Un bel cambio di prospettiva rispetto a quella a cui ero abituata.
Il secondo shock l’ho avuto quando ho letto Felicemente seduta. Il punto di vista di un corpo disabile e resiliente, di Rebekah Taussig (Le Plurali, 2021). A un certo punto l’autrice chiede: se una persona in carrozzina si riesce a spostare autonomamente nello spazio perché ci sono rampe, ascensori, porte leggere e che si aprono facilmente, bagni spaziosi e accessibili, è ancora “disabile”? E se una persona sorda che comunica in lingua dei segni è in una stanza in cui tutte le altre persone comunicano allo stesso modo?
Non ci avevo mai pensato, che il problema potesse essere la società, non la persona con la sua disabilità. Che a essere “sistemato” o “curato” potessero essere il mondo e lo spazio, non l’individuo.
Taussig commenta: «Invece di concentrarsi sulla disabilità come Il Problema, il modello sociale si focalizza sull’esperienza della disabilità, il contesto della disabilità, l’ambiente che crea momenti invalidanti». E continua: «È molto più facile vedere una persona con disabilità e dire ha bisogno di una cura per adattarsi al nostro mondo! È molto meno comune, molto più difficile riconoscere che dobbiamo cambiare il nostro mondo per adattarlo a più persone». Per questo è necessario (ri)pensare al «ruolo della società – ovvero di precise scelte sia individuali che economiche e politiche – nel generare inaccessibilità e quindi esclusione» (Ilaria Crippi, Lo spazio non è neutro, Tamu, 2024).
In inglese, una delle espressioni più usate per definire una persona con disabilità è “disabled person”. In italiano si può tradurre come “persona disabile”, ma in alcuni contesti di attivismo viene tradotta come “persona disabilizzata” o “disabilitata”. Il participio passato conserva la sfumatura dell’inglese e suggerisce quindi l’idea che la persona sia resa disabile: dalla società, dall’ambiente.
Quando pensiamo alla disabilità dobbiamo prepararci a vivere drastici cambi di prospettiva. Lo possiamo fare ascoltando chi vive e incarna ogni giorno questa condizione.
«“lo non capisco cosa ci sia da essere orgogliosi nell’essere omosessuali, o autistici, o disabili!”, mi sono sentito dire con l’avvicinarsi dei vari Pride», racconta Fabrizio Acanfora (In altre parole. Dizionario minimo di diversità, effequ, 2021). Ma questa affermazione «è già di per sé normalista, in quanto presuppone che essere diversə abbia una connotazione negativa, insomma, che ci sia poco di cui andare orgogliosə». E spiega: «Io, durante quelle che alcunə vedono come inutili giornate a tema, manifesto il mio essere me stesso rivendicando con orgoglio – quello sì – il diritto a vivere e mostrare liberamente la mia identità.
Certo, capisco che per alcune persone questo sentimento possa essere difficile da comprendere, soprattutto quando non è mai stato loro negato il diritto di autorappresentanza o di autodeterminazione, quando non hanno dovuto nascondersi sentendosi sbagliatə, difettosə, dovendo fingere di essere normali per non essere esclusə da una società che ritiene giusto discriminare, bullizzare, a volte anche picchiare, uccidere o incarcerare chi viene percepitə come diversə. Per chi non ha mai vissuto l’esclusione, l’invisibilità sociale, è evidente che ci sia poco da festeggiare nel poter mostrare al mondo, con orgoglio, sé stessə».
«Scoprire che esiste un movimento di rivendicazione dell’orgoglio disabile mi ha offerto uno spazio di elaborazione prezioso e fecondo. Mi sono sentito potenziato. Parte di una comunità di persone simili a me con le quali poter condividere qualcosa di indefinibile, ma non per questo meno palpabile», spiega Simone Riflesso (Di orgoglio disabile e perplessità, in «Superando.it», 2023). E continua: «Io non sono orgoglioso di essere tetraplegico. Non provo orgoglio per avere una lesione midollare e sperimentare i limiti di un corpo che non mi risponde più. Ma succede qualcosa quando mi accorgo che non provo vergogna, nel momento in cui gli sguardi altrui mi incontrano o si appoggiano su di me. Sento un brivido quando non abbasso lo sguardo, nell’incrociare quello di un ragazzo che trovo carino e che fatico ancora a pensare possa trovarmi desiderabile o interessante, a causa del mio corpo. Sono orgoglioso quando riesco a mettere il mio corpo rotto, bisognoso e fuori standard anche solo per un attimo da parte. Quando decido di far valere la mia voce».
È quello che spero di essere riuscita a fare qui: lasciare voce e spazio a tante persone che mi hanno aiutato a rivoluzionare il mio modo di pensare e intendere la disabilità. E mi hanno fatto capire che la responsabilità di cambiare le cose, però, non spetta a chi è disabile: è collettiva. L’accessibilità non deve più essere negoziabile, sacrificabile, dimenticabile. I corpi disabili non possono più essere relegati in casa o in strutture-ghetto, invisibilizzati, e quindi dimenticati. Dobbiamo abituarci a prevedere da subito le persone con disabilità in ogni progetto, spazio, evento.
Disabilità: ma facciamole queste domande!
RSI Cultura 30.03.2023, 15:03
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