Nel suo acclamato film del 2023 “Io capitano” ci sono quattro minuti che racchiudono una poetica. È quel piano stretto sul protagonista, che rivive nel suo sguardo il viaggio compiuto da un deserto all’altro: da quello geografico, africano, e quello umano, europeo.
È il viaggio dei migranti, raccontato in quella dimensione che di solito sfugge alla cronaca giornalistica e per la quale non abbiamo neppure un immaginario visivo: la partenza, l’abbandono della terra natale.
Nella sceneggiatura di quella scena, Matteo Garrone aveva scritto indicazioni piuttosto scarne: “sei orgoglioso” (per aver salvato i compagni).
Ma lasciare che l’inaspettato e l’imprevedibile si insinuino nella storia è una delle prerogative della cinematografia di Garrone: “sono momenti irripetibili e lì è scattato qualcosa. Lui [l’attore della scena, n.d.r.] ha fatto qualcosa che nella carriera di un regista capita raramente. È un dono. Il mio modo di lavorare è legato all’attesa di questi doni, che arrivano dal cielo”.
Arrivano, sì, dal cielo, ma non in un “deserto intenzionale”, se così possiamo chiamarlo. Ci vogliono le condizioni per sperare in un dono così e Garrone ha l’abilità, l’esperienza e la sensibilità per crearle.
Anzitutto “c’è sempre la ricerca legata all’uomo e ai suoi conflitti, ai suoi desideri, alle sue passioni, ai suoi labirinti. Per me, c’è sempre l’uomo al centro”.
Un uomo trasfigurato, elevato, immerso in una realtà che assume nelle sue mani i caratteri del mito: “Immagino delle storie che in qualche modo possano farmi interpretare una realtà, ricostruire una realtà da un punto di vista visivo, interrogare un mondo, reinterpretarlo. Perché per me la realtà è un punto di partenza, cerco sempre di interpretarla, di trasformarla, di portarla su un’altra dimensione”.
Garrone riesce a elevare la realtà senza far prevalere il suo sguardo, ma mettendosi al servizio della storia e dei suoi personaggi, spettatore lui stesso e non solo artefice di ciò che vediamo: “Parlando con un attore di Io capitano, una sera in albergo, gli dicevo che a volte avevo la sensazione di essere un po’ un intruso nella loro cultura. Mi ha dato una risposta che mi ha fatto molto piacere: non sei un intruso, sei un messaggero”.