Territorio e tradizioni

Non c’è Pasqua senza uova

Franco Lurà ci racconta l’origine di questa usanza esaminando i saperi popolari della Svizzera italiana

  • 14 aprile 2022, 13:41
Diversi modi di cucinare le uova
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Di: Franco Lurà

Perché a Pasqua si vendono e si regalano le uova? L’origine di questa usanza ha, come è ovvio visto il carattere della festa, motivazioni religiose. L’uovo è infatti il simbolo di Cristo, simboleggia la nascita e la risurrezione ed è quindi una logica conseguenza che lo si ricolleghi a questa occasione che ricorda la risurrezione di Gesù dopo tre giorni dalla sua morte. Tant’è che in passato la festa era chiamata addirittura Pasqua d’uovo e veniva festeggiata donando e mangiando uova sode, benedette in chiesa durante la messa del sabato. Un’usanza, questa, attestata nei territori della Svizzera italiana già nel corso del Cinquecento e viva ancora, fino a pochi decenni fa, in alcune nostre parrocchie.

Le uova di cioccolato, che già diverse settimane prima fanno la loro comparsa nei negozi e nei supermercati, non sono altro che la commercializzazione di questo pregnante simbolo.

Per contro è antica, e documentata in Europa fin dal XII secolo, l’usanza di regalare per Pasqua uova vere o fatte con materiali vari, spesso pregiati, a volte perfino di alto valore artistico.

Di qualche decennio fa è invece la pratica di inserire nelle uova di cioccolato una sorpresa, come pure di recente introduzione, importate dal nord delle Alpi, sono l’usanza di nascondere e cercare le uova e quella di colorarle, con dei pastelli o facendole bollire nel caffè dopo aver applicato delle foglie di ortaggi attorno al guscio.

La motivazione religiosa, che sta alla base dell’usanza, trova un supporto anche nella grande disponibilità di uova nel periodo pasquale. Questo sia per un fatto naturale, confermato dal detto popolare da favrée u fa öv fign al pulée, in febbraio fa uova perfino il pollaio, sia e soprattutto perché la Chiesa, a lungo e fino al XIX secolo, nei giorni della Quaresima proibiva oltre al consumo della carne pure quello delle uova e dei latticini.

Ne conseguiva un’abbondanza che veniva sfruttata in vari modi: o facendo dei regali, come ad esempio ai figliocci da parte dei padrini, al prete in occasione della visita per la benedizione delle case o, come in passato a Brissago, agli emigranti, affinché li proteggessero dai pericoli durante il loro viaggio e il loro soggiorno lontano da casa, oppure consumando uova nel giorno della Pasqua. Di regola in insalata, sode e tagliate a metà. Ce lo ricorda per la città di Monza un documento del 1811, redatto nel corso di una delle prime grandi ricerche etnografiche condotte in Italia, le cosiddette inchieste napoleoniche in quanto volute dal grande imperatore: “E nelle feste di Pasqua si distribuiscono in famiglia le ova, perché tutti possano gustare delle così dette chiappe”, con il termine dialettale che sta a indicare le uova sode dimezzate, ma che, vista l’ambiguità insita nella parola, poteva facilmente prestarsi ad aneddoti che fanno perno proprio sul suo duplice significato. Ne cita alcuni lo scrittore milanese Carlo Dossi, che nelle sue "Note azzurre", serie di quadernetti ricchi di osservazioni di vario tipo, spesso semplici appunti, scrive: “Le Chiappe originate dal grido dei Giudei, vedendo Gesù fuggir dal sepolcro «ciappel, ciappel»”. Una nota dalla connotazione evidentemente scherzosa, che non può ambire ad avere nessuna pretesa etimologica. E subito sotto: “Diceva mia nonna, sedendosi in questo giorno [la domenica pasquale] a tavola «incoeu se mangia tutt coi man men l’insalatta». «E perchè? » chiedevamo noi, benchè la nonna ce l’avesse già detto per una fila di Pasque (chè guai se non lo chiedevamo: nonna ne sarebbe rimasta mortificata e avrebbe fatto cattiva Pasqua). E lei rispondeva, con un sorrisetto di gusto «Perchè l’insalatta la se mangia coi ciapp».

Nel Mendrisiotto all’insalata si preferiva la frittata, la fritada di erbétt, fatta con molte uova, varie erbe, foglie di primula, spinaci e uva passa. In valle di Muggio, a Caneggio, si preparava la fritada ala disperada, cotta sul fuoco alimentato dai ramoscelli secchi di ulivo, rimasti dall’anno precedente.

Una trentina d’anni fa un’anziana di Mendrisio mi ha descritto le diverse consuetudini del periodo pasquale e mi ha fornito la ricetta della frittata di Pasqua, ritenuta da lei tipica ed esclusiva del borgo. La riporto, come l’ha scritta lei: “Sbattere 6 uova con una forchetta, aggiungere 150gr di zucchero, 100gr, di uvetta, 1 bustina zucchero vanigliato, 1kg di spinaci ben lavati, cotti e strizzati, un bel pizzico di erba amara (detta anche érba di öv), adoperare una padella di ferro (o non aderente), sciogliere ca 80gr di burro, versare l’impasto e lasciar cuocere a fuoco molto lento per circa 40'. Poi capovolgere la torta e cuocerla ancora per circa 30'. Versarla in un piatto e lasciarla raffreddare”.

Le indicazioni sono chiare, chi vuole può cimentarsi nella preparazione. Con in più la consapevolezza che, sia gustando le uova in insalata o in frittata, sia concedendosi il piacere di un dolce equivalente di cioccolato, dietro all’aspetto alimentare e commerciale ci sono una profondità culturale e un valore spirituale che vanno ben al di là del semplice gesto quotidiano.

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