Il 27 dicembre del 1947, in un rigido inverno zurighese, nasceva Mariella Mehr. Lo stesso giorno, in cui la poeta e scrittrice di etnia jenisch vide la luce, coincide con l’inizio di un’esistenza buia e travagliata, descritta nell’introduzione al suo romanzo d’esordio, Steinzeit (1981) come «l’inizio di un’immane lotta per sopravvivere nonostante tutto». Questo primo libro autobiografico è stato tradotto in italiano da Fausta Morganti con il titolo Silviasilviosilvana, per sottolineare la perdita di identità subita dall’autrice nel corso della sua atroce vicenda personale, strettamente intrecciata però a quella di molte altre persone. Infatti nella Svizzera democratica, tra il 1926 e il 1972, venne promosso attraverso l’agenzia federale Pro Juventute un programma eugenetico Enfants de la grand-route, conosciuto anche come Kinder der Landstrasse. Un tentativo di eliminare la cultura jenisch in nome del miglioramento della specie umana. Bambini e bambine furono sottratte alle loro famiglie di origine e consegnate in affidamento, internate in orfanotrofi, cliniche psichiatriche o istituti penitenziari. Tutto ciò avveniva perché il nomadismo era considerato una patologia degenerativa ereditariamente trasmissibile. Tuttavia Mariella Mehr non si posiziona nel panorama della letteratura contemporanea - come voce di primo piano - unicamente per il suo spaccato biografico, bensì per la sua scrittura. La sua opera è apprezzata per il flusso narrativo incalzante e le scelte stilistiche che, attraverso un repentino passaggio dal discorso indiretto all’indiretto libero, tra delirio e realtà, mescolano i punti di vista. Della parola composta, tipica qualità della lingua tedesca, Mariella Mehr ne fa una cifra stilistica, scrivendo tuttoattaccato conia così di continuo nomi che definiscono un mondo: Sbarragioie, Accidentidiunabambina, Sudiciaputtanella. Gioca con l’ambivalenza dei nomi propri – ora Silvia, ora Silvio, ma anche Silvana – e di quei sostantivi che, in tedesco, permettono una maggiore ambiguità. Descrittivo è l’esempio del romanzo Daskind, dove il sostantivo neutro non solo include tutti i generi, ma ricorda tanto la parola das Ding, poiché il razzismo non distingue le bambine dai bambini, ma gli umani dai meno umani, dalle cose.
Da trentuno anni a questa parte non ho fatto altro che sopravvivere. Il prezzo è stato alto. Silvana e prima Silvia – o anche Silvio – è alcolista, farmacodipendente, incapace di inserimento sociale, in stato di depressione e di angoscia costante, ribelle, incontrollabile.
Mariella Mehr, Silviasilviosilvana
Così scrive in Steinzeit (Silviasilviosilvana), facendo emerge per la prima volta il ricordo di quel tempo di pietra in cui le identità e le relazioni oltre a smarrirsi risultano pietrificate da codici e norme, dalle quali sono violentemente espulse affettività, amore e relazioni umane. “Casi incurabili”, così venivano etichettate le persone appartenenti a famiglie nomadi durante quel progetto nato ancor prima della stagione dei totalitarismi e concluso solo al termine del trentennio che seguirà la Seconda guerra mondiale. Kinder der Landstrasse vedrà coinvolte, come nel caso di Mariella Mehr, almeno tre generazioni che solo nel 1986 riceveranno le scuse pubbliche dell’allora presidente della Confederazione Alphons Egli.
Una scrittura sicuramente militante, di denuncia, per descrivere quel progetto che, oltre a prevedere il cambio di identità dei bambini e delle bambine attraverso la recissione definitiva di ogni contatto con la famiglia d’origine e l’attribuzione di un nuovo nome di battesimo, operava anche una rieducazione linguistica: ai Kinder veniva imposto il divieto assoluto di usare la loro lingua madre jenisch, un idioma strettamente imparentato con il Rotwelsch tardomedievale, composto da circa 600 parole base. Mehr ha saputo sfruttare la capacità terapeutica della scrittura riappropriandosi delle parole che le istituzioni le avevano sottratto, piegando secondo la propria cifra letteraria il linguaggio, materia viva e modellabile.
La morte non cessa di stupirmi. Non mi abbandona mai. Mi accompagna nei miei vagabondaggi attraverso la serra. Guarda con i miei occhi l’allegra attività di cattura dei meravigliosi ibridi.
Mariella Mehr, Il marchio
In Svizzera l’eugenetica ha trovato presto sostegno culturale e istituzionale, già a partire dall’Ottocento. Tuttavia la mancanza di una normativa eugenetica nazionale valida per l’intera federazione è stata a lungo considerata come prova che le misure eugenetiche furono il prodotto di decisioni solo a livello cantonale e cittadino. Perciò, più che di un’eugenetica svizzera, è forse più adeguato parlare, come sottolinea Emmanuel Betta nel fascicolo monografico Present-days eugenics, di un’eugenetica «polifonica e multiforme, costruita su più livelli, cittadino, cantonale e privato». Questo non toglie però che Mariella Mehr, come molte altre persone, è stata costretta a convivere con i suoi mostri, sapendo comunque tramutare la rabbia e il dolore in opera letteraria e in impegno sociale. L’infanzia e l’adolescenza marchiate dalla violenza istituzionale sono state sublimate nella sua opera di scrittrice e poeta attraverso ampie e dettagliate denunce di tutte le violenze fisiche e psicologiche subite da chi è stato coinvolto dal programma della Pro Juventute. L’intera opera di Mariella Mehr racconta questa esperienza di sradicamento, segregazione, rieducazione e colpevolizzazione, temi che ritroviamo in quella che è stata definita la trilogia della violenza, composta dai romanzi DasKind (1995), Brandzauber (1998) e Angeklagt (2002), tradotti in italiano da Anna Ruchat con i titoli Labambina, Il marchio e Accusata. Ciò che rende grande la sua opera è che, nonostante Mariella Mehr abbia vissuto in prima persona quelle tragiche vicende, riesce ugualmente a sparire dietro alla sua scrittura senza inciampare nella facile via del giudizio.
Lo ha imparato dai lupi che non c’è pietà dove scorre il sangue.
Mariella Mehr, Labambina
Nei suoi romanzi il confine tra realtà e finzione è labile, a volte introvabile. Labambina, protagonista del primo romanzo della trilogia (come la bambina Mariella Mehr) si chiude in un agghiacciante silenzio durato cinque anni, nel tentativo di difendersi dalle violenze esterne, quelle fisiche e sessuali di sconosciuti e del padre affidatario. Nella vita reale, Mariella Mehr, nell’ottica della rieducazione, sarà soggetta a ripetuti ricoveri coatti in istituzioni mediche, dove già a partire dai nove anni subirà l’elettroshock. Fu resa anche oggetto di lezioni universitarie e cliniche, quale esempio di «razza tarata». A 17 anni concepì un figlio che le fu tolto e venne sottoposta a sterilizzazione, come fecero già con la madre Maria Emma Mehr, prima di lei. La sterilizzazione era una pratica conosciuta in Svizzera, considerata un’operazione rientrante nel normale lavoro del medico, prescritta per ragioni terapeutiche anche verso altre tipologie di persone quali alcolizzatə, tossicodipendenti e persone malate di malattie veneree (in totale, il caso svizzero, ha visto tra il 1935 e il 1975 la sterilizzazione di circa 63'000 persone, per la quasi totalità donne).
Sono in stato di grazia. Uccido. Dunque sono. Se riduco la mia vita a questa formula breve, posso considerarla pienamente riuscita.
Mariella Mehr, Accusata
Mariella Mehr alla prosa affiancò un’intensa attività poetica in dialogo «con la poesia di Paul Celan e di Nelly Sachs, di Antonin Artaud, come lei poeti dell’esilio tra terra perduta e follia», come riporta Anna Ruchat nella prefazione alla raccolta di poesie di Mehr intitolata Ognuno incatenato alla sua ora (2014). Accanto e insieme alla sua ricerca poetica Mehr promosse, come già detto, un’azione politica per recuperare, non solo attraverso la forma letteraria, ma anche attraverso la storia e la memoria dell’esperienza subita da parte delle istituzioni e della cultura che l’avevano promossa. Prese dunque parte attiva alla discussione pubblica sulla Pro Juventute che si aprì nel 1972, grazie a una serie di articoli apparsi sulla rivista Der Schweizerische Beobachter firmati Hans Caprez, che portarono allo scandalo pubblico e alla definitiva chiusura, lo stesso anno, del progetto Kinder der Landstrasse. Per l'impegno dimostrato in favore dei diritti delle minoranze e dei gruppi emarginati, Mariella Mehr, nel 1998 riceverà il dottorato honoris causa da parte della Philosophisch-Historische Fakultät. È in questa occasione che pronuncerà una lectio intitolata Uomini e topi (titolo preso in prestito dall’omonimo romanzo del 1937 di John Steinbeck). Una brillante esposizione che si compone di una lucida e implacabile critica delle origini e delle persistenze culturali e politiche che hanno caratterizzato quel progetto e si conclude con un’orazione funebre dedicata alla madre, Maria Emma Mehr.
Partendo proprio dalla propria vicenda personale, prima come figlia e poi, anche lei, come madre, Mariella Mehr è stata testimone diretta di tre generazioni devastate dalla pulizia etnica e, ancora oggi, con coraggio, ci spinge a riflettere sui modelli di cittadinanza e sui meccanismi di costruzione dell'alterità all'interno di uno Stato democratico e liberale.
Mariella Mehr: “Notizie dall’esilio”
Laser 19.11.2012, 10:00
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