Reportage

“Ai nuovi soldati manca la salute e il morale”

Viaggio in Ucraina, a tre anni dall’invasione russa, dove migliaia di persone continuano a scappare dalle zone dei combattimenti

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26:35

Ucraina, tre anni dopo

Laser 24.02.2025, 09:00

  • Davide Maria De Luca per RSI
  • Davide Maria De Luca
Di: Davide Maria De Luca, collaboratore RSI dall’Ucraina

A tre anni esatti dall’inizio dell’invasione su larga scala, l’Ucraina è un paese prostrato dalla guerra e che guarda con speranza alla pace. Secondo le stime, circa 100mila soldati sono rimasti uccisi nel conflitto, insieme a migliaia di civili, mentre più di 380mila persone sono rimaste ferite. I danni alla sua economia si misurano in centinaia di miliardi, la povertà è quasi quadruplicata, mentre il governo continua a pagare stipendi e pensioni soltanto grazie agli aiuti internazionali. Ma nonostante tutto questo, è un paese che non è ancora disposto a capitolare.

Pochi giorni prima dell’anniversario, sul fronte di Lyman, nella regione orientale del Donbass, incontriamo Kamin, nome di battaglia di un soldato ucraino di 45 anni.

“La situazione per ora è sotto controllo perché i russi li teniamo a bada – ci dice – Ma il futuro dipende dalle nuove reclute che arriveranno. I rimpiazzi sono vecchi: 57, 58, 59 anni, non il meglio che possiamo avere. Il problema principale sono le condizioni dei nuovi soldati: gli manca la salute e gli manca il morale”.

Kamin fa parte di un battaglione della 115ª brigata di fanteria meccanizzata. Il suo comandante, il maggiore Pavlo, spiega in quali condizioni stanno combattendo. “A marzo sarà un anno che non torniamo nelle retrovie – spiega – Per la fine del mese abbiamo in programma un periodo di recupero, ma è solo pianificato, nessuno sa se ce lo cancelleranno all’ultimo momento. Ne abbiamo bisogno perché il nostro organico al completo è di 750 soldati e in tre anni lo abbiamo rinnovato completamente per cinque volte”. Significa che il battaglione ha subito oltre 5mila fra morti, feriti o altri soldati che hanno disertato o lasciato l’esercito per ragioni di salute. I soldati come Kamin, che combattono dal primo giorno dell’invasione, sono rimasti una decina.

Nel frattempo, migliaia di persone continuano a scappare dalla zona dei combattimenti e dalla lenta ma costante avanzata dell’esercito russo. A Dnipro, snodo principale dei flussi di rifugiati in fuga dai combattimenti, incontriamo Olga Volkova, che dirige uno dei decine di centri di accoglienza in città.

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Olga Volkova

  • Lorenzo Sassi per RSI Info

“È una vergogna che, al terzo anno di guerra, stiamo facendo questa attività come volontari – ci dice – È una vergogna che noi copriamo i buchi lasciati dallo Stato: l’evacuazione dal fronte, il recupero dei documenti, lo spostamento delle persone negli ospedali”.

In città ci sono quasi mezzo milione di rifugiati, di cui si prendono cura soprattutto volontari con il sostegno di organizzazioni internazionali. Ma dopo tre anni, la macchina dell’accoglienza comincia ad avere difficoltà.

“In tre anni la situazione non è cambiata – dice Volkova – Nel 2022 non sapevo dove trovare i soldi, e ora non so dove trovare i soldi. Il finanziamento che stiamo usando è quasi finito. Questa è stata la mia esperienza per tre anni ed è stato davvero estenuante. Ho 36 persone che lavorano qui e non so se tra un mese riuscirò a pagare loro lo stipendio”.

Interno di un centro di accoglienza a Dnipro.jpg

Un centro di accoglienza a Dnipro

  • Davide Maria De Luca per RSI Info

I tre lunghi anni di guerra si sentono ormai anche nelle regioni più lontane dal conflitto. A Leopoli, vicino al confine con la Polonia, incontriamo Daryna, una ragazza che a 15 anni ha dovuto organizzare la fuga della sua famiglia dai territori occupati, un’avventura che ha richiesto mesi di preparazione e due tentativi prima di riuscire. Oggi Daryna è riuscita a costruirsi una nuova vita a Leopoli, anche grazie all’aiuto della sua psicologa. Ha trovato un lavoro e un fidanzato.

Il pensiero della guerra, dice, è sempre con lei. Ma è riuscita a trovare una nuova normalità. Per farlo, però, come molti altri ucraini, ha dovuto pagare un prezzo caro: “Io non spero più in niente, né nella pace né in altro – ci dice – Ho aspettato troppo a lungo mentre eravamo sotto occupazione. Un anno e mezzo ad attendere l’arrivo degli ucraini a salvarci. Ho aspettato abbastanza. Ora penso solo a vivere la mia vita”.

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