Un agente di polizia kosovaro è rimasto ucciso e due altri feriti negli scontri scoppiati oggi, domenica, a Banjska, un villaggio 55 km a nord di Pristina vicino al confine con la Serbia, dove una trentina di uomini armati ha preso d’assalto un monastero ortodosso. Le forze locali hanno circondato la località e hanno ripreso infine il controllo dell’edificio religioso. Nella sparatoria hanno perso la vita anche tre assalitori, mentre due di loro - feriti - sono stati arrestati così come quattro presunti fiancheggiatori nelle vicinanze. Altri sarebbero riusciti a fuggire sulle montagne.
Il premier del Kosovo, Albin Kurti, ha parlato di “professionisti” e accusato la Serbia di celarsi dietro l’operazione, “una menzogna” secondo il presidente serbo Aleksandar Vucic. Certo l’episodio non può che soffiare nuovamente sul fuoco delle tensioni fra Belgrado e la sua ex provincia, dichiaratasi indipendente nel 2008 ma riconosciuta solo da una parte della comunità internazionale.
Nei mesi scorsi c’erano state “la guerra delle targhe” non riconosciute oltre i rispettivi confini e le tensioni dopo le elezioni nelle quattro municipalità in cui vive la maggioranza serba, che le aveva però boicottate. Erano intervenuti anche Stati Uniti ed Unione Europea per far pressione su Pristina. Il rappresentante dell’UE per la politica estera, Josep Borrell, ha condannato l’attacco odierno, così come, fra gli altri, anche la Svizzera.
In febbraio l’UE aveva proposto un piano in 10 punti che le due parti avevano accettato solo con riserve, finora mai sciolte. Doveva assicurare anche il proseguimento del loro processo di avvicinamento all’adesione ai Ventisette. Belgrado lamenta ancora la mancata applicazione degli accordi del 2013 e del 2015 che dovevano garantire una maggiore autonomia ai serbi del Kosovo.
Dal maggio del 1999, dopo la guerra, 4’000 uomini della forza di pace KFOR a guida NATO sono presenti nella regione.