Perché il 20 marzo 2003 iniziò la seconda guerra in Iraq? Melvyn Leffler sorride e, poi quasi in modo didattico, snocciola le ragioni: "Per tre fattori: paura, potere e hỳbris (la presunzione ndr.)". Lo storico dell'Università della Virginia conosce bene i gangli del potere americano ed è un esperto degli equilibri geopolitici, dalla Guerra Fredda a oggi. Alla seconda guerra del Golfo Leffler ha appena dedicato un libro "Affrontare Saddam Hussein: George Bush e l'invasione in Iraq".
La copertina del libro scritto da Melvyn Leffler: "Affrontare Saddam Hussein: George Bush e l’invasione in Iraq"
Per capire quelle tre ragioni che spinsero l'Amministrazione Bush a lanciare un attacco militare al regime di Saddam Hussein, spiega Leffler, non si può dimenticare il contesto del post 11 settembre. "Non solo gli atti terroristici alle Torri Gemelle e al Pentagono, ricorda Leffler, ma pure gli invii con le buste piene di antrace. Senato e Camera vennero chiusi, la Corte Suprema fu costretta a traslocare per deliberare, le poste americane erano in subbuglio… e alla Casa Bianca iniziarono a serpeggiare falsi timori". Fu già nell'autunno 2001 che si diffuse la (falsa) notizia che Saddam Hussein stava continuando a produrre armi biologiche, armi di distruzione di massa.
Oggi sappiamo che era falsa, ma dopo l'inizio della "Guerra al Terrore" con l'invasione dell'Afghanistan, nella primavera 2003, stando ai sondaggi, la maggioranza degli americani – il 72% stando a Gallup – sosteneva una guerra alla Iraq.
"Alla paura e al senso di forza si è aggiunta la hỳbris, la presunzione, spiega Leffler. E quando parlo di questa arroganza intendo un senso di superiorità che è insito in noi americani. La sensazione che gli altri popoli accolgano i valori americani, tanto che lo stesso presidente Bush, e molti dei suoi principali responsabili, credevano sinceramente che gli iracheni avrebbero accolto con entusiasmo le truppe statunitensi".
Melvyn Leffler
Una presunzione allora teorizzata con una missione dall'Amministrazione Bush: esportare la democrazia. "La motivazione principale di Bush non era portare democrazia e libertà in Iraq. Ma con l'invasione americana dell'Iraq, riteneva che il risultato fosse una maggiore libertà e democrazia". Ma le posizioni, sottolinea lo storico, erano più sfumate: "Non c'era chiarezza all'interno stesso del gabinetto presidenziali sugli obiettivi", ammette Leffler. "Se Bush voleva rovesciare il regime e creare i presupposti per la costruzione di una democrazia, chi coordinava le operazioni – il Segretario alla Difesa Rumsfeld e il Generale Franks – contava solo il primo obiettivo".
Il regime di Saddam Hussein cadde nell'aprile 2003, già nel mese di giugno di quell'anno Bush dichiarò che la missione "Iraqi Freedom" era stata "compiuta", ma sa seconda guerra in Iraq si è conclusa ufficialmente nel 2011. Da almeno un lustro il sostegno popolare era venuto meno, le menzogne che avevano portato alla decisione di quella guerra erano venute a galla, come quella delle prove trovate dall'intelligence americana sul proliferare delle armi di distruzione di massa sventolate dal Segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell'ONU. "Una delle lezioni più importanti, afferma quasi serafico il professore, è saper modulare le proprie paure. Dobbiamo essere consapevoli che i politici tendono a esagerare i pericoli per ingigantire le minacce. Nel caso dell'Iraq, la minaccia delle armi di distruzione di massa è stata molto gonfiata"
Altre colpe vennero a galla, come le torture e i crimini di guerra avvenuti nelle prigioni segrete di Abu Ghraib. "Un'altra lezione fondamentale di quella guerra, aggiunge Leffler, è di comprendere i limiti del potere americano. Non dare per scontato di riuscire a fare di più di quanto si crede di poter fare".
Vent'anni dopo quel conflitto è inevitabile azzardare un paragone con il conflitto in Ucraina e l'impegno americano per sostenere la resistenza di Kiev. Un'allusione che Leffler capisce anche se sottolinea subito le differenze: "Mi devo quasi complimentare con il Presidente Biden", ammette sorridente, "perché ha stabilito una priorità assoluta che è quella di evitare uno scontro diretto con la Russia, evitare il rischio di uno scontro nucleare, a cui ha fatto seguito un priorità numero due: contrastare l'aggressione russa". "Certo, ci sono delle ambiguità – ammette lo storico – cosa significa sventare l'aggressione russa? Significa ripristinare lo status quo territoriale come era prima dell'inizio della guerra? Oppure significa tornare al 2014? E cosa implica sventare l'aggressione russa? Sono ambiguità inevitabili e credo che al momento neppure a Washington nessuno sia in grado di rispondere".