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L'Iraq si apre al turismo

Venti anni fa i bombardamenti USA su Baghdad davano il via alla seconda guerra del Golfo. Per molti iracheni quel periodo sembra quasi dimenticato - Si muovono tra disillusione e desiderio di formare una società più moderna

  • 20 marzo 2023, 13:04
  • 20 novembre, 11:43
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Radiogiornale del 20.03.2023: il reportage di Paola Nurnberg

RSI Info 20.03.2023, 15:28

  • Reuters
Di: Paola Nurnberg, inviata RSI in Iraq 

Venti anni fa i bombardamenti americani su Baghdad davano il via a una svolta per l’Iraq, che avrebbe modificato gli equilibri regionali e internazionali. Per molti iracheni però, quel periodo sembra quasi dimenticato, e si muovono tra disillusione e desiderio di formare una società più moderna e aperta verso l’esterno.

Nel caotico centro storico di Baghdad c’è Mutanabbi street, la via dei librai, chiusa al traffico, dove il rumore della città si spegne improvvisamente. Sulle bancarelle, libri usati e nuovi, rarissimi però quelli che parlano di Saddam Hussein. Il 20esimo anniversario dell’attacco americano sembra lontanissimo.

Mutanabi street nel 2007

I librai non hanno mai lasciato Mutanabi street, qui in un'immagine del 2007, nonostante la distruzione portata dalla guerra

  • Keystone

"Quel giorno ero a casa con la mia famiglia - racconta uno dei librai - ed eravamo tutti spaventati. Mancava la corrente, l’acqua, e restavamo in attesa. In seguito, ricordo gli americani che andavano in giro a cercare i membri del partito Baath di Saddam, fu un periodo devastante". "Lo ricordo come un giorno triste - dice una signora -, ma soprattutto per quello che è avvenuto dopo, cioè la guerra civile tra sunniti e sciiti dopo il 2006. Mio cugino, che era avvocato, in quel periodo era stato bloccato a un check point delle milizie sciite, che poi ci hanno chiesto un riscatto di 4'000 dollari. Abbiamo pagato, ma lui è stato ucciso lo stesso".

L’occupazione degli Stati Uniti aveva infatti lasciato il paese in balìa della violenza interetnica. Gli attentati contro le forze della coalizione e tra gruppi rivali, rapimenti ed esecuzioni di civili stranieri, contractor e giornalisti, erano all’ordine del giorno.

Uno dei proprietari dello Shabandar café, nella via dei librai, ricorda ancora l’autobomba esplosa lì vicino che aveva ucciso all’istante cinque dei suoi fratelli e altre undici persone. Era il marzo del 2007. "Immaginatevi – dice senza alzare gli occhi dalla cassa -, di vedere l’esercito di un altro paese che arriva e promette sicurezza, e poi invece accade questo…è tutta colpa degli americani".

Oggi però per molti iracheni, quando si parla di guerra, il riferimento non è più all’occupazione di 20 anni fa, bensì alla guerra civile che ne è seguita oppure, specialmente tra i più giovani, all’orrore dell’ISIS.

Zara, 21 anni, studentessa di farmacia, è nata ad esempio nel 2002. "Oggi ci sono più soldi e più possibilità, la vita è più facile rispetto a prima, ma dopo la laurea vorrei andare via da questo paese, magari negli Stati Uniti, a Londra, o in Europa…" .

Il Paese resta pericoloso

"Siamo pronti per essere competitivi, ma la mancanza di sicurezza in Iraq non ci permette di far venire qui docenti e studenti stranieri", spiega Alaa Shawqi, responsabile della sicurezza dell’università Al Rafidain di Sadr City, un quartiere della capitale irachena. "Perché qui non possiamo ancora garantire la protezione, e questo è un problema".

L’instabilità di oggi dopo la guerra civile e quella contro lo stato islamico, dal 2014 al 2018, fa dell’Iraq un paese ancora pericoloso, dove ogni ambasciata sconsiglia di viaggiare, eppure qui arrivano anche turisti. Ne incontro alcuni in un hotel del centro, frequentato da diplomatici e giornalisti. "Siamo un piccolo gruppo di stranieri, viaggiamo da sud a nord con un bus per due settimane", dice divertito Jonathan, australiano. Per Lawrence, americano, gli allarmi sui viaggi qui sono persino esagerati e infatti dice che “la nostra guida sa dove andare e dove no, ma io mi sono finora sentito totalmente al sicuro”.

Chi parla di ripresa dell’industria turistica, anche grazie all’immenso patrimonio culturale dell’Iraq, forse è un po’ troppo ottimista ma lo sguardo verso l’esterno e un’idea di ripresa sono davvero concreti. Ne è una prova lo spagnolo Jesus Casas, allenatore della nazionale di calcio irachena, considerato praticamente un eroe nazionale dopo aver fatto vincere alla squadra la Gulf Cup.

"Lo sport - afferma - deve servire a unire le frontiere, i popoli e a creare pace e stabilità. Quando siamo arrivati qui ci hanno accolto con scetticismo, ma ora andare in giro è diventato complicato perché in strada ci fermano, ci abbracciano, vogliono farsi dei selfie e ci offrono tutto. L’allegria del popolo iracheno resterà per sempre una bella memoria".

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