Reportage

Il Natale mesto di Betlemme, Gaza e Jenin

Viaggio tra Israele e Cisgiordania, per raccontare le conseguenze della guerra ma anche le violenze dell’occupazione e le spaccature della società israeliana 

  • 26 dicembre 2023, 13:13
  • 26 dicembre 2023, 13:13
Betlemme - L'incubatrice con Gesù Bambino davanti alla chiesa della Natività

Betlemme - L'incubatrice con Gesù Bambino davanti alla chiesa della Natività

  • Massimo Piccoli- RSI
Di: Emiliano Bos 

“Non serve a nulla parlarne. Nessuno mi restituirà il mio Basil”. Il dottor Suleiman siede composto sul divano di questo salotto ben curato di Jenin. Non siamo nel disastrato campo profughi roccaforte della resistenza armata. Ma in un appartamento signorile appena fuori dal centro. Mi racconta che è stato lui a constatare la morte di suo figlio 14enne, sdraiato a terra esangue a cento metri da qui. Gli hanno sparato i soldati israeliani, mentre si ritiravano dall’ennesima incursione in questa città. “Aveva tentato di rialzarsi, lo hanno colpito di nuovo”. Tre pallottole in tutto. Da medico, aveva capito subito che l’arrivo dell’ambulanza sarebbe stato inutile. Era il 29 novembre.

Incontro il dottor Suleiman la vigilia di Natale. È la prima volta che accetta di condividere la propria testimonianza e il proprio dolore con un giornalista. Poco lontano dal suo salotto, all’esterno di una casa, c’è una lapide con la foto di Adam, 8 anni, ucciso lo stesso giorno dai militari israeliani nella medesima circostanza. “Non avevano alcuna colpa. Erano dei ragazzi, li hanno uccisi inutilmente” sibila piano il dottor Suleiman, pietrificato nel suo dolore.

Non avevano alcuna colpa. Erano dei ragazzi, li hanno uccisi inutilmente

In un video circolato sui social – tratto da una videocamera di sorveglianza – si vede suo figlio con in mano qualcosa che sembra voler accendere ma che non riesce a lanciare perché colpito dai proiettili. L’esercito israeliano – in un comunicato citato dalla Reuters – parla di “dispositivi esplosivi” confermando di aver sparato con munizioni letali e di aver poi “identificato l’obiettivo”. Un altro video mostra una jeep militare da cui scende un soldato israeliano: scatta una foto al cadavere di Basil. E poi riparte. Come accertarsi che l’oggetto in mano al ragazzo fosse davvero un “dispositivo esplosivo”? Perché colpire due minorenni non armati con pallottole letali? In che modo rappresentavano una minaccia per l’esercito? È una risposta proporzionata uccidere due minorenni, uno dei quali aveva solo 8 anni? Le forze armate israeliane hanno garantito una risposta in tempi brevi a queste domande. Che per ora rimangono però inevase. Per un Bambino che arriva, troppi se ne vanno. A Jenin come – soprattutto – a Gaza o a Betlemme.

Jenin: una via del campo profughi dove vivono circa 20mila palestinesi

Jenin: una via del campo profughi dove vivono circa 20mila palestinesi

  • Emiliano Bos - RSI

La disperazione al telefono

Tolgono il fiato anche le parole di Nebal Farkash, portavoce della Mezzaluna Rossa, la Croce Rossa palestinese. Da 80 giorni ininterrotti comunica la devastazione di Gaza. La contatto al telefono dall’auto parcheggiata su una collina di Sderot, un chilometro e mezzo in linea d’aria dall’inferno in cui sono intrappolati 2,3 milioni di palestinesi. Vedo scie gialle in cielo, tra l’eco sorda dei bombardamenti continui sul nord nella zona di Jabaliya. “800mila persone in tutta la zona di Gaza City sono senza alcuna assistenza sanitaria, bloccano anche le nostre ambulanze e colpiscono direttamente gli ospedali. Hanno pure arrestato il nostro personale paramedico”. 

Betlemme: il muro di separazione costruito da Israele

Betlemme: il muro di separazione costruito da Israele

  • Massimo Piccoli - RSI

Diritti umani, quali?

“Cari europei, non venite più a darci lezioni di diritti umani e diritto internazionale: ormai è chiaro, noi non siamo bianchi. E a noi non si applicano”. L’esasperazione ha raggiunto un limite per il reverendo Munther Isaac, della Chiesa luterana di Betlemme. Ci incrociamo davanti a un’installazione che è un pugno nello stomaco. Un Gesù bambino in un’incubatrice, proprio davanti all’ingresso della Chiesa della Natività: impossibile non pensare ai bimbi di Gaza. Qualche giorno prima di Natale, il reverendo mi aveva mostrato il presepe costruito con le macerie a simboleggiare proprio la devastazione di Gaza e della sua gente. Quel bambinello con la Kefyah ha fatto il giro del web.

Cari europei, non venite più a darci lezioni di diritti umani e diritto internazionale: ormai è chiaro, noi non siamo bianchi. E a noi non si applicano

“Se Gesù nascesse oggi, lo farebbe a Gaza tra le case distrutte…in segno di solidarietà con gli oppressi” mi dice. “Ogni vita è preziosa. Palestinesi, israeliani... ogni vita. Non dovremmo essere d’accordo con l’uccisione di bambini né col loro rapimento”.

Lo stesso disincantato sconforto l’avevo percepito nelle parole di Saed, insegnante di storia in un liceo di Betlemme. Vive nell’altra Betlemme: il campo profughi di al Aida, distante appena un paio di chilometri dalla Basilica della Natività. “Vedi queste reti sulle case? Servono a proteggerci dai lanci di gas lacrimogeni israeliani”. A spararli è un’arma controllata da remoto. La vedo dal tetto dello “Youth Center” del campo profughi: una specie di mitragliatrice nera appollaiata sulla torretta della Grande Muraglia della separazione voluta da Israele. La sua bocca metallica sputa anche granate assordanti e proiettili di gomma. È stata installata un anno e mezzo fa. Saed mi racconta di aver rinunciato a un master in “human rights” a Londra. Aveva vinto una borsa di studio. “Non ha senso: di quali diritti umani parliamo? A noi non si applicano. Noi palestinesi non contiamo nulla. Non faccio la vittima: è una constatazione”.

Sana Al Aaza, infermiera, moglie dell'attivista per i diritti Munther Amira, arrestato a Betlemme

Sana Al Aaza, infermiera, moglie dell'attivista per i diritti Munther Amira, arrestato a Betlemme

  • Emiliano Bos - RSI

L’altra Betlemme, dietro il muro

Difficile dargli torto. Il presidente di questo centro giovanile nel campo profughi di Betlemme – Munther Amira – è stato arrestato l’altra notte. L’indomani sua moglie Sana mi aveva raccontato che i soldati israeliani hanno fatto una violenta irruzione di notte, davanti ai loro figli. “Papà ti voglio bene” era riuscita a gridare la figlia sedicenne”.

Dopo i massacri di oltre 1200 civili e militari compiuti da Hamas il 7 ottobre, i raid israeliani si sono intensificati. Così pure gli arresti notturni e le detenzioni senza incriminazione come quella di Munther Amira. Non solo, ma Israele ha sigillato la Cisgiordania (Gaza era già una gabbia chiusa col lucchetto da anni). La conseguenza più visibile? Betlemme senza turisti, l’economia in ginocchio. “Avevamo investito per tre anni in questo progetto” mi racconta Lamar Mauge, 27 anni, imprenditrice che col cugino aveva appena aperto un albergo ristrutturando un immobile di famiglia. “Cancellazione dopo cancellazione dopo cancellazione” – mi dice – le prenotazioni sono sfumate. Denaro e speranze perse.

Betlemme è chiusa! È molto difficile entrare, molto difficile uscire

Israele ha sbarrato i valichi di accesso da Gerusalemme. “Betlemme è chiusa! È molto difficile entrare, molto difficile uscire” allarga le braccia Padre Ibrahim Faltas durante la diretta del TG delle 20, in bilico su un tavolaccio collocato alla bell’è meglio qui sulla terrazza del municipio di Betlemme. Da quassù lo sguardo abbraccia la celebre piazza della Mangiatoia, vuota. “Stasera è un parcheggio, di solito ci vuole mezz’ora a piedi per attraversarla tra la folla”. Natale surreale di Betlemme. Qui - per chi crede - è nato Gesù Bambino. Ora si piangono le morti di altri, troppi bambini.

Il presepe di Betlemme col filo spinato, a simboleggiare l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi

Il presepe di Betlemme col filo spinato, a simboleggiare l'occupazione israeliana dei Territori palestinesi

  • Massimo Piccoli - RSI

Cisgiordania blindata, le radici delle ingiustizie

Non sono solo i negozi di souvenir e gli alberghi di Betlemme a subire le conseguenze di questo blocco. Ma l’intera Cisgiordania. “Sono state imposte restrizioni ovunque. Oltre 150mila palestinesi che hanno il permesso di lavorare in Israele non possono andarci” mi spiega il Cardinale Pierbattista Pizzaballa. Lo incontro nella sede del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Dal 7 ottobre gente è rimasta senza lavoro, non sanno fino a quando rimane questa situazione. “Ciascuno è chiuso dentro il proprio dolore, la propria prospettiva, la propria narrativa, e l’altro non esiste proprio. Per cui gli israeliani parlano delle loro vittime accidentali o meno, e i palestinesi solo delle loro vittime” aggiunge il Patriarca di Gerusalemme. La frattura provocata dalla carneficina compiuta da Hamas il 7 ottobre è enorme, a suo parere. Ma ora più che mai, per uscirne, occorre rimuovere le cause profonde del conflitto. “È tempo di mettere fine all’occupazione” di Israele sui territori palestinesi, è l’appello di Pizzaballa che ascoltiamo durante la celebrazione della notte di Natale. Dalla Basilica della Natività, il suo appello: “Non è sufficiente parlare di cessate il fuoco. Non vogliamo un cessate il fuoco. Vogliamo fermare queste ostilità. Perché la violenza genera solo violenza. Dobbiamo fermare questo controsenso”. 

L'interno di un centro di aggregazione nell'insediamenti di Shilo in Cisgiordania

L'interno di un centro di aggregazione nell'insediamenti di Shilo in Cisgiordania

  • Massimo Piccoli - RSI

Terra Santa e tribolata

Basta percorrere in auto la Terra Santa per capire cosa intenda il Patriarca per “cause profonde del conflitto”. La vigilia di Natale, il percorso da Gerusalemme a Jenin, nel nord, e poi il viaggio verso Betlemme, nel sud, lo confermano. Lunghissime code all’uscita di Ramallah, la “capitale” amministrativa palestinese. Il check-point di Qalandiya è chiuso. Le auto con targa palestinese non entrano verso Gerusalemme. Saliamo verso Huwwara – uno degli epicentri delle tensioni palestinesi – il transito il centro è chiuso. Occorre prendere una deviazione. Ancora più a nord, altro check-point. Limitazioni. Posti di blocco improvvisati. Timori di aggressioni da parte dei residenti negli insediamenti ebraici lungo la strada “60”, che taglia la “Samaria e la Giudea” come chiamano questa terra contesa.

Però non ho mai sentito di un giornalista che viene inviato qui a raccontare le violenze subite quotidianamente dagli ebrei

Gli stessi coloni denunciano continue aggressioni armate contro di loro. “Però non ho mai sentito di un giornalista che viene inviato qui a raccontare le violenze subite quotidianamente dagli ebrei” mi dice Nati Rom, avvocato, molto attivo nel movimento che promuove gli “outpost”. Questi “avamposti”, sono le nuove e continue occupazioni di territorio palestinese, considerate illegali dal diritto internazionale ma sostenute – anche economicamente - dall’attuale governo Netanyahu e dalle sue componenti più a destra. 

La moglie di Raz, i cui fratelli sono tuttora ostaggi a Gaza, in una protesta a Tel Aviv per la loro liberazione

La moglie di Raz, i cui fratelli sono tuttora ostaggi a Gaza, in una protesta a Tel Aviv per la loro liberazione

  • Emiliano Bos - RSI

Ostaggi “abbandonati” da Netanyahu

Eppure, una parte della società israeliana manda segnali diversi. A partire dai famigliari dei circa 130 ostaggi. Li incontro a Tel Aviv. “Bring them home”: portateli a casa è diventato qualcosa in più di uno slogan. È un logo, è un’identità, è un imperativo. “Il nostro governo dovrebbe trovare un accordo per lo scambio dei prigionieri a ogni costo” mi dice Raz, architetto, cognato di due ostaggi: Yossi ed Eli, fratelli di sua moglie. La famiglia di Ely è stata massacrata: “Hanno ucciso sua moglie e le mie due nipoti di 9 e 11 anni”. Nella piazza c’è un orologio digitale che scandisce il tempo dell’angoscia di queste famiglie. Ormai 81 giorni e parecchie ore. 

Nella ribattezzata Piazza degli ostaggi è apparecchiata una tavola con le sedie vuote, in attesa del loro rientro

Nella ribattezzata Piazza degli ostaggi è apparecchiata una tavola con le sedie vuote, in attesa del loro rientro

  • Emiliano Bos - RSI

“Non le conto più” aggiunge Raz, “perché ogni giorno diventa più pericoloso. “Liberi ora” gridano a migliaia quando seguiamo il corteo davanti alla sede delle forze armate. “Gli ostaggi sono stati abbandonati da Netanyahu”, urla qualcuno. Una parte delle famiglie chiede apertamente le dimissioni del premier israeliano, accusato di non proteggere gli ostaggi. Ma di proseguire la guerra solo per la propria sopravvivenza politica. Anche in vista del processo per corruzione, frode e abuso di ufficio che riprenderà a breve.

Gli ostaggi sono stati abbandonati da Netanyahu

Ma c’è pure chi lo sostiene convinto. La destra, soprattutto quella più estrema. Che sta correndo ad armarsi e a ricevere le armi distribuite anche in spazi pubblici dal ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Tantissimi israeliani hanno chiesto e ottenuto nuove licenze per le armi: oltre 26’000 nuove dal 7 ottobre, e altre 44’000 già parzialmente pre-approvate. 

Elana Kaminka mostra l'intreccio territoriale tra villaggi palestinesi e colonie israeliane da Tzur Hadassa

Elana Kaminka mostra l'intreccio territoriale tra villaggi palestinesi e colonie israeliane da Tzur Hadassa

  • Emiliano Bos - RSI

Elana, una mamma con coraggio

Si scaglia contro la leaership israeliana anche Elana Kaminka. È la mamma di un sottufficiale poco più che 20enne ucciso nel massacro compiuto da Hamas durante quel “Shabat shaur”, il sabato nero. Lo chiamano così gli israeliani. “La rabbia non basta a descrivere la sensazione che provo per le persone che hanno preso le decisioni in questo governo: hanno anche rifiutato di assumersi qualsiasi responsabilità”. Suo figlio Yennai, invece, insieme ad altri due ufficiali, sostituì alcune reclute di guardia durante l’assalto di Hamas, evitando una strage in una base appena fuori la Striscia di Gaza. “Lui si è assunto la sua responsabilità”. Però è morto. Adesso questa donna tenace prova a guardare in avanti, per garantire – dice – “un futuro agli altri 3 miei figli”. La incontro a casa sua a Tzur Hadassa, mezz’ora d’auto da Gerusalemme tra alture punteggiate da pini marittimi.

Dobbiamo imparare a vivere insieme. Non c’è separazione

Ci spostiamo in un giardino pubblico, che si affaccia sulle colline a cavallo della Linea verde del 1967. “Viviamo uno a ridosso dell’altro: qui siamo in Israele, vedi quel villaggio a poche centinaia di metri? È palestinese. Poi c’è una colonia ebraica, là dietro un altro villaggio palestinese e lassù in cima un’altra colonia”, dice allungando il braccio verso una vallata fertile. “Non serve una soluzione militare”, insiste la mamma di questo soldato ucciso. “Loro non se ne andranno. Noi nemmeno. Dobbiamo imparare a vivere insieme. Non c’è separazione”. 

Nel villaggio di Susiya i palestinesi hanno paura di mandare i propri figli a scuola

Nel villaggio di Susiya i palestinesi hanno paura di mandare i propri figli a scuola

  • Massimo Piccoli - RSI

Sulle colline a sud di Hebron

Un auspicio che oggi appare lontano. La separazione è profonda. Anche perché questi territori sono piegati dalle barriere che dividono questi due popoli. “Impossibile immaginare due Stati in questo momento: la Cisgiordania è suddivisa in 156 entità senza continuità territoriale” mi spiega Yehuda Shaul, ex-soldato, fondatore dell’associazione di veterani dissidenti “Breaking the silence”. È uno dei più noti attivisti per i diritti umani in Israele. Siamo a Susyia, un villaggio dove su 80 famiglie palestinesi ne sono rimaste una trentina. Le altre fuggite e causa della violenza dei coloni.

Siamo terrorizzati e abbiamo paura di mandare le figlie a scuola

La signora Halima Nawasha siede in una tenda dove sua figlia sta facendo i compiti. La scuola è rimasta chiusa per due mesi dopo il 7 ottobre. “Ma siamo terrorizzati e abbiamo paura di mandare lei e sua sorella a scuola”. Nelle ore libere gli insegnanti diventano sentinelle: pattugliano l’esterno delle classi nel timore degli attacchi degli abitanti degli insediamenti ebraici. Shaul srotola una mappa sul cofano della macchina, sulle colline a sud di Hebron. Qui le violenze dei coloni – sottolinea – “non sono episodi isolati, ma una strategia precisa e ben organizzata per rimuovere i palestinesi”. 

Gaza, una guerra senza profughi 

A Gaza – da anni – i palestinesi non si possono muovere. Privi di qualsiasi possibilità di uscita dalla Striscia. Ora più che mai. Ecco perché questa guerra non “produce” profughi. Perché da Gaza non si può scappare. Ce ne rendiamo conto di persona nei pressi del kibbutz di Nahal Oz, dove i commando di Hamas hanno fatto strage di civili israeliani e soldati israeliani il 7 ottobre. Oggi qui sono accampati centinaia di carri armati, bulldozer e veicoli dell’esercito israeliano. Tra i campi vicino alle coltivazioni di alberi da frutta, vediamo le colonne di fumo dei bombardamenti su Gaza. La Striscia dista circa due chilometri. A queste bombe non si scappa. I civili sono intrappolati.

Israele bombarda anche le zone dichiarate “sicure” in cui ha ordinato alla popolazione di sfollare. Secondo l’Onu, oltre l’80% degli abitanti – 1,8 milioni di persone – hanno lasciato le proprie case e ora sono sfollati. Come hanno cercato di documentare giornalisti e abitanti in questi 80 giorni di guerra. Oltre cento operatori dell’informazione sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani. Il numero di civili uccisi sfiora i 21mila secondo le cifre del ministero della sanità di Hamas. La loro attendibilità è confermata anche da fonti accademiche. Anzi, probabilmente il bilancio è più grave. Manca il conto dei morti rimasti sotto le macerie. La piramide demografica lo indica in modo inequivocabile: oltre il 45% dei morti hanno meno di 20 anni. Bambini inclusi. A Gaza, come a Jenin, da dove eravamo partiti.

Sul suo divano, il dottor Suleiman siede composto. Parla con un filo di voce mentre racconta del suo Basil, ucciso meno di un mese fa dai soldati israeliani: “Voleva studiare architettura o ingegneria. Nessuno me lo restituirà. Il mondo ha perso la sua coscienza”.

Viaggio per immagini tra Israele e Cisgiordania

05:35

Cisgiordania, il reportage del nostro inviato

Telegiornale 23.12.2023, 20:00

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