Persuaso che l’epidemia più che sanitaria sia soprattutto un’emergenza elettorale, da giorni Donald Trump accusa Pechino di aver nascosto l’origine del coronavirus. L’ipotesi di un virus creato in un laboratorio cinese esclusa dalla comunità scientifica internazionale (e pure dal dottor Anthony Fauci della task-force statunitense) si inserisce all’interno di una strategia difensiva presidenziale - il bisogno di un capro espiatorio per scaricare le proprie responsabilità - e di una più complessa partita che si sta giocando a livello globale: quella geopolitica per la leadership del mondo che verrà. Ne è persuasa Bonnie Glaser, politologa e analista, del Center for Strategic and International Studies di Washington che da anni studia il rapporto sino-americano dirigendo il China Power Project. “Il virus – ha raccontato al Telegiornale RSI - ha esasperato il confronto tra Stati Uniti e Cina. Pechino è più che mai desiderosa di mostrarsi come leader mondiale”.
Un braccio di ferro a distanza che si è acuito – spiega Glaser – sotto la presidenza Trump: “La Cina intravvede un vuoto politico e vuole cogliere l’occasione per occuparlo, intravvede la possibilità di presentarsi come possibile guida. Credo che se gli Stati Uniti avessero adottato una politica differente, la Cina sarebbe stata più debole dopo questa pandemia”. Decisiva secondo l’analista, la via unilaterale imboccata dall’amministrazione Trump, quell’America First che ha isolato gli Stati Uniti e ha diminuito la fiducia nei suoi confronti: “quello che la Cina teme di più – racconta Bonnie Glaser - è la formazione di coalizioni anticinesi. Per questo le strategie multilaterali sono più efficaci dell’approccio unilaterale perseguito dall’amministrazione Trump”.
Sono da considerare in quest’ottica le forniture cinesi di mascherine e medicinali ad alcuni stati particolarmente colpiti dalla COVID-19 come Italia, Spagna, Regno Unito, ma pure in Africa (in Ruanda e Camerun). Aiuti internazionali prontamente mostrati in patria dalla propaganda cinese: “i media cinesi vogliono mostrare come nell’affrontare l’emergenza gli Stati Uniti abbiano fallito non solo al loro interno, ma venendo meno al loro storico ruolo internazionale”. Una propaganda rivolta anche al proprio interno, spiega Glaser, “poiché il regime era preoccupato delle tensioni in Cina dove molti hanno messo in discussione la reazione di Pechino allo scoppio della pandemia a Wuhan e dopo la morte del dottor Li (n.d.r.: il medico che per primo aveva avvertito del pericolo epidemico e che non venne creduto e fu minacciato dalle autorità)”.
Il successo di Pechino di allargare il proprio raggio di influenza, un’operazione di Soft Power, è comunque discutibile secondo la politologa: “Nell’ultimo decennio Pechino ha investito molto denaro con l’obiettivo di risultare un alleato, e poi un leader, fidato. Ma la propria natura di regime, di autocrazia non l’aiuta a conquistare simpatie, anche se ammetto che in alcuni paesi la sua immagine sta cambiando, come in Italia. In altri – come in Australia, dove la Cina ha investito molto– la politica e la popolazione rimangono scettici nei confronti di Xi Jinping”.
La pandemia ha accelerato trasformazioni già in corso e acuito il confronto tra Washington e Pechino che sembrava aver trovato nella “guerra dei dazi” la propria principale scacchiera. Una partita che si gioca invece su più campi – dopo il Coronavirus, ora ci sarà la corsa al vaccino – e che è destinato a continuare anche dopo le elezioni di novembre.
Scambi di accuse USA - Cina
Telegiornale 06.05.2020, 22:00