Non costituisce una discriminazione diretta vietare di indossare il velo islamico sul posto di lavoro. E questo vale anche per qualsiasi segno politico, filosofico o religioso. È la decisione presa dalla Corte di giustizia europea in merito a due casi avvenuti in Francia e in Belgio, entrambi riguardanti il diritto di portare il velo in ufficio.
La sentenza, in particolare, riguarda la vicenda di Samira Achbita, donna musulmana assunta nel 2003 come receptionist dall'impresa G4S in Belgio. Una regola non scritta - messa solo in un secondo tempo nero su bianco - dell'azienda prevedeva che ai dipendenti non fosse permesso indossare segni visibili della loro fede politica o religiosa. La donna ha contestato il suo licenziamento, avvenuto dopo il suo rifiuto di rispettare la norma, dinanzi ai giudici del Belgio, che a loro volta hanno chiamato in causa la Corte UE.
Secondo la Corte, "la norma interna non implica una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.Potrebbe tuttavia rappresentare una discriminazione "indiretta", qualora venga dimostrato che l'obbligo di abbigliamento neutrale comporti un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia". Discriminazione indiretta che può però essere giustificata dal perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità nei rapporti con i clienti.
ATS/CaL
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PP 12.00 del 14.03.2017 - Il servizio di Silvia Piazza
RSI Info 14.03.2017, 13:04
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