La difesa dell’Europa è stata ancora l’argomento centrale a Bruxelles, al Consiglio europeo il cui vertice si è concluso giovedì a tardissima sera, ed era il secondo in due settimane dedicato al tema. I leader dell’UE hanno rinnovato il loro appoggio al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, senza curarsi dell’aperto dissenso del premier ungherese Viktor Orban, ma non hanno preso impegni concreti sui 5 miliardi chiesti nell’immediato da Kiev per rifornire i suoi arsenali di proiettili di artiglieria e sono apparsi ancora divisi sulle modalità del finanziamento del riarmo.
La responsabile della politica estera comunitaria, l’estone Kaja Kallas, aveva chiesto ai Ventisette di aprire il portafoglio. Il credo europeo - mentre Donald Trump e Vladimir Putin riavvicinano Stati Uniti e Russia e discutono per mettere fine al conflitto - è che l’Ucraina oggi in difficoltà al fronte debba essere il più forte possibile sul campo di battaglia per presentarsi con le carte migliori al tavolo delle trattative.
In una dichiarazione approvata a maggioranza, senza la partecipazione ungherese, l’UE promette quindi di continuare a “fornire all’Ucraina regolare sostegno finanziario” e “aumentare gli sforzi per soddisfare le richieste militari” di Kiev. Senza però, come detto, alcun impegno immediato sui 5 miliardi di cui sopra. “Il problema non siamo noi, ma la mancanza di una strategia europea”, ha fatto sapere Budapest, spiegando il proprio “no”. Un “no” che oggi non ha impatto, ma che potrebbe pesare in futuro quando si riproporranno altre questioni dove l’unanimità è richiesta, come il rinnovo delle sanzioni contro la Russia.
Riarmo, tre grandi nodi da sciogliere
Tutti d’accordo, invece, sul rafforzamento delle capacità militari europee, o almeno sul principio, ma il piano di riarmo parte in realtà in salita e gran parte del lavoro resta da fare per raggiungere lo scopo entro l’orizzonte del 2030. Le posizioni di partenza sono diverse e talvolta apertamente divergenti e tre sono i nodi principali. Innanzitutto il senso d’urgenza molto diverso fra la percezione dei Paesi vicini geograficamente alla Russia e quella degli Stati meridionali, come la Spagna.
Secondariamente le modalità di finanziamento. La roadmap prevede di chiudere al Consiglio Europeo di giugno, fissato in calendario subito dopo al summit della NATO in Olanda, dove gli alleati saranno chiamati ad aumentare gli obiettivi minimi di spesa per la difesa - si parla di almeno il 3% del PIL, oggi alcuni Paesi non arrivano al 2% - sotto l’impulso energico di Donald Trump. Al momento però, la possibilità di derogare al patto di stabilità non entusiasma tutti e nemmeno il ricorso allo strumento denominato Safe (fatto di 150 miliardi di prestiti): riarmarsi facendo debito nazionale appesantirebbe troppo alcuni bilanci e c’è chi, come la Grecia, invoca invece un debito comune di cui i cosiddetti “frugali” (tedeschi, austriaci e olandesi in primis) non vogliono nemmeno sentire parlare. Se saranno in pochi a ricorrere ai mezzi a disposizione, gli 800 miliardi di investimenti vagheggiati da Ursula von der Leyen saranno un miraggio.
Da ultima c’è la questione del “comprare europeo” per rafforzare gli eserciti, un aspetto su cui insiste la Francia perché beneficerebbe alla sua industria dell’armamento. Parigi però appare piuttosto isolata in questo, con le altre maggiori capitali ancora propense a guardare pure al Regno Unito e agli Stati Uniti.