Distretto industriale di Savar, nord ovest di Dacca. Qui le concerie bengalesi - da cui proviene la pelle usata per produrre borse, scarpe, portafogli e cinture vendute in tutto il mondo - continuano a scaricare sostanze tossiche nelle acque del sistema fluviale del Paese e a sfruttare la manodopera locale.
Trasformare la pelle di mucca in cuoio di buona qualità è un procedimento che avviene attraverso l’utilizzo di numerose sostanze chimiche, tra cui il cromo. Nell’area ristretta del quartiere Hazaribagh a Dacca, dove erano concentrate 200 concerie - che producevano il 95% del cuoio bengalese - non c’era alcun impianto di smaltimento dei rifiuti tossici (liquidi e solidi) derivanti dal processo di concia. Così venivano sversati direttamente nel fiume Buriganga, fonte di acqua potabile per milioni di persone. Nel 2013 il quartiere era stato classificato dagli ambientalisti della Green cross international e del Blacksmith institute come il quinto luogo più inquinato al mondo. I circa 15mila operai che ci lavoravano, tra cui numerosi minorenni, erano continuamente esposti a sostanze chimiche in un ambiente estremamente pericoloso.
A seguito di forti pressioni internazionali, il Governo bengalese, nell’aprile del 2017, ordinò il ricollocamento delle concerie nel Savar leather industrial park di Hemayetpur a poco più di 25 km dalla capitale. Ma lo spostamento ha riproposto le criticità già presenti a Hazaribagh. A Savar si lavora senza alcuna protezione, per 10 ore al giorno, con uno stipendio medio di 136 euro al mese, senza alloggi, né strutture ospedaliere vicine.
Inoltre, come denunciato dall’Ong Save the environment movement (Poba), l’impianto di depurazione Common effluent treatment plant (Cetp) non sta funzionando e le concerie proseguono a smaltire ingenti quantità di rifiuti tossici nelle acque del fiume Dhaleshwari, direttamente collegato con il Buriganga.
Davide Lemmi