I rifugiati somali, nello Yemen in guerra, sono i figli di un Dio minore. Trasferitisi qui 20 anni fa, mentre in Somalia imperversava la guerra perché lo Yemen era (ed è tuttora) l’unico Paese del Golfo ad avere firmato la Convenzione internazionale sui Rifugiati, in molti sono rimasti con un pugno di mosche in mano. Tra i richiedenti asilo, i somali che sono riusciti ad ottenere la cittadinanza yemenita sono unicamente quelli che riuscirono a fare richiesta al governo centrale prima delle guerre interne tra Nord e Sud dello Yemen negli anni Duemila.
Il conflitto attuale - quello che ad Aden tutti chiamano “la guerra del 2015” - con la sua crisi economica ha precipitato nel baratro tutti e spinto nella povertà più nera la gente di Basatheen, il quartiere-baraccopoli di Aden. Qui vivono più di 7mila persone. Tra loro anche Aisha. Arrivata con un barcone 20 anni fa e dopo avere rischiato la vita, ha preso l’ennesima decisione che equivale per lei all’ultima spiaggia: tornare in Somalia, aderendo al programma di rimpatrio volontario predisposto da IOM e UNHCR dal 2017 per i somali che vivono in Yemen.
Soprattutto la condizione economica in cui vive Aisha con il marito e otto figli è diventata insostenibile: nell’ultimo mese, da quando il prezzo della valuta locale, il Rial yemenita, è precipitato, i prezzi sono saliti alle stelle: un litro di acqua in bottiglia è schizzato da 75 YR a 1096 e un litro di benzina da 400 a 8000 YR. Quando Aisha arrivò, vent’anni fa, la sua barca naufragò e solo lei e pochi altri riuscirono a salvarsi. La donna non va in mare da qual momento ma non ha paura: “Dio mi ha aiutato allora e mi aiuterà anche adesso” dice.
Aisha è una moderna figlia della regina di Saba che qui in Yemen fu onorata e potente: nel Paese della regina, oggi piegato dalla guerra, Aisha è soprattutto figlia della povertà.
Laura Silvia Battaglia