Il 10 maggio, per la prima volta, il governo autoproclamato dei ribelli del Nord, gli Houti, con capitale Sana’a, ha dovuto annunciare il primo morto di Coronavirus per bocca del ministro della salute Taha al-Mutawakkil: un somalo impiegato in un albergo del centro della capitale. Questo dopo che per mesi, in Yemen, del Corona virus ci si era fatti beffe e la vita era trascorsa in modalità zero-social distance, nei mercati affollatissimi, nei matrimoni altrettanto affollati, nelle riunioni del thè del pomeriggio e anche in frontline tra i ribelli del Nord e le truppe governative.
La proeccupazione, però, dal 10 maggio è palpabile. I decessi aumentano vertiginosamente e, nel Paese, secondo l’organizzazione Mondiale della Sanità, si contano 16 morti e 108 casi accertati di cui 21 in una sola giornata, senza contare la difficoltà di verificare le cause di molti decessi, soprattutto al Nord. Tuttavia, se non è stato attuato un reale lockdown nazionale, si diffondono sempre più le buone pratiche: dalla distanza sociale all’uso dei disinfettanti; dai guanti alle mascherine. E proprio su quest’ultimo aspetto le autorità del Nord puntano maggiormente al punto da avere incoraggiato la riapertura di fabbriche chiuse da diversi anni e la riconversione della produzione del tessile. “Una buona occasione per creare posti di lavoro femminili – dice Abdu Ali Atif, proprietario di una fabbrica fondata trent'anni fa dai cinesi nella capitale Sana’a – e per contribuire a salvare le vite dei nostri connazionali”.
Laura Silvia Battaglia