1972. Michelangelo Antonioni sbarca in Cina con una troupe della Rai. È stato invitato dal numero due del potere cinese, Zhou Enlai, per girare un documentario che racconti un enorme paese allora piuttosto chiuso. Antonioni e i suoi non sanno assolutamente nulla della Cina e i funzionari del Partito comunista consentono loro di visitare solo pochi, selezionati luoghi: quelli in grado di trasmettere l'immagine dei progressi compiuti da “Xinhua”, la “nuova Cina” di Mao Zedong. Sarà l'inizio di un rapporto difficile tra il regista italiano e il potere cinese, che si prolungherà anche e soprattutto dopo l'uscita del film.
Antonioni sceglie di mettere l'uomo al centro, il “nuovo uomo” del socialismo e – quando riesce a sfuggire alle guide cinesi infilandosi in qualche villaggio della Cina profonda - ne dà una rappresentazione cruda, reale, riprendendo scene di vita quotidiana semplice, spesso misera. Ma questo si scontra con l'estetica monumentale della Rivoluzione Culturale che dilagava in quegli anni, fatta di pose eroiche e giovani vibranti che sventolano il libretto rosso di Mao. All'uscita del film, cominceranno i guai: “Chung Kuo” – questo il titolo del documentario, che significa semplicemente “Cina” - verrà messo all'indice da Pechino e Antonioni sarà accusato di essere un “clown anticinese”.
Cina, tra passato, presente e futuro
Nel 2018 siamo tornati sulle orme di Antonioni, abbiamo visitato i luoghi da lui filmati e incontrato alcune delle persone riprese 46 anni prima. In questa mini-serie raccontiamo alcune piccole storie, in attesa del documentario che uscirà nei prossimi mesi.
Gabriele Battaglia
(Un reportage esteso del viaggio sulle orme di Michelangelo Antonioni è stato scritto da Junko Terao per Internazionale. Accompagnare la visione dei multimedia di questa serie con la lettura di quel resoconto può restituire una visione più completa del progetto).