Analisi

La sfida del Bürgenstock: una pace giusta

Prima giornata del vertice: la pace in Ucraina non può essere la capitolazione di Kiev o l’accettazione del fatto compiuto, dicono praticamente tutti - Berna lavora per sgomberare il campo, in vista dei prossimi incontri

  • 15 giugno, 23:26
  • 16 giugno, 00:14
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Viola Amherd e Volodymyr Zelensky

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Di: RSI Info

Una pace, ma che sia una pace giusta. Perché in ballo non c’è solo la sopravvivenza dell’Ucraina come nazione indipendente nelle sue frontiere internazionalmente riconosciute, ma molto di più: il rispetto del diritto internazionale, di quella legalità - duramente conquistata nel ventesimo secolo, a prezzo di milioni di morti - che vede nel ripudio della guerra e dell’aggressione armata uno dei propri principi cardine. Se cade quello, se chiunque non sia soddisfatto dei confini attuali può ritenersi legittimato ad agire con la forza, si apre un vaso di Pandora che rischia di fare sembrare la tragedia ucraina una scaramuccia di poco conto, al confronto.

È molto chiaro il messaggio che viene dalla conferenza del Bürgenstock sulla pace in Ucraina. Non una conferenza di pace, perché non si può fare la pace senza tutti i belligeranti al tavolo, e a questo tavolo la Russia non c’è. Ma una conferenza sulla pace, che – per usare le parole del cancelliere tedesco Scholz, forse il più poetico tra gli intervenuti – è come una gracile piantina che ha bisogno di essere annaffiata per fortificarsi.

Ignazio Cassis parla dell’inizio di un processo ancora lungo e incerto. Nella migliore delle ipotesi usciranno degli appunti per un percorso. Emmanuel Macron parla della necessità di allargare il tavolo dei paesi coinvolti. Non si capisce bene di chi parli. Sui verdi prati svizzeri di paesi che possano spezzare una lancia per Mosca non se ne vedono molti. Ci sono la Serbia e l’Ungheria, con i rispettivi ministri degli esteri, ma non prendono la parola in plenaria. C’è la Turchia, l’unico paese NATO che non ha seguito gli altri sulla strada delle sanzioni, ma è molto cauta. Nemmeno la Cina è venuta, gli Stati Uniti sono sicuri che Pechino ha disertato per fare un piacere a Mosca che deve averglielo chiesto.

Alla fine i più morbidi sembrano gli italiani, con il ministro degli esteri Tajani: non siamo in guerra con Mosca, dice, ma poi lamenta che Putin potrebbe finire la guerra subito e non lo fa. Il più duro è il presidente polacco Duda (l’unico ancora in carica tra i nazionalisti del PiS) che parla della Russia come di una prigione delle nazioni e dell’ultima potenza coloniale al mondo. E se la prende anche con la Bielorussia, che non c’è.

Se la pace non si può fare, perlomeno non ora, si può almeno cercare - nell’attesa di circoscrivere il perimetro del conflitto - di sgomberare il terreno su cui arde il rogo, allontanando il materiale infiammabile. Sicurezza nucleare, sicurezza alimentare e questioni umanitarie sono i tre temi su cui si spera di arrivare a conclusioni condivise. L’umanitario è anche una tradizione elvetica, i diplomatici ce la mettono tutta. Domani vedremo dove si è riusciti ad arrivare.

Il commento di Simona Cereghetti

Telegiornale 15.06.2024, 20:00

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