La situazione finanziaria del Canton Ticino è difficile e ha spinto il Consiglio di Stato a presentare nuovi tagli nel preventivo per il 2025, ma non così allarmante se guardiamo all’estero. Rispetta pienamente, per esempio, i criteri di Maastricht in vigore nella zona euro. In cifre relative alla spesa e al prodotto interno lordo i dati ticinesi “già spaventano un po’ meno”, secondo Mario Jametti, direttore dell’IRE, l’Istituto di ricerche economiche dell’Università della Svizzera italiana. Se ci sia una soglia massima di disavanzo e se le sforbiciate al budget debbano o meno essere lineari sono due questioni di scelte politiche, ha affermato l’esperto intervistato mercoledì a SEIDISERA.
Il disavanzo di 64 milioni, un debito pubblico che sale anche lui e siamo circa a quota circa 2,7 miliardi. Le chiedo innanzitutto rapidamente così una sua lettura personale di quanto esposto martedì...
“Penso che in prima istanza forse è importante mettere queste cifre assolute in relazione. Per esempio il disavanzo di 64 milioni su una spesa totale di 4,5 miliardi rappresenta un disavanzo di circa l’1% della spesa, che nelle previsioni fornite dal Cantone crescerà al 3%. Sicuramente questo numero già spaventa un po’ meno. È simile per il debito pubblico, che, è vero, è in crescita in valore assoluto, ma allo stesso tempo cresce anche la produzione economica. Perciò il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo è abbastanza stabile, solo leggermente leggermente maggiore in confronto agli altri Cantoni, attorno del 10% per il Cantone o del 20% se si includono i debiti dei Comuni. Sono valori si sono possono solo sognare in tanti altri contesti all’estero”.
Però è vero che anche da noi c’è un po’ la guerra della narrazione fra chi è ossessionato dal rigore finanziario e chi invece è a favore di un “laissez faire”. C’è una soglia di tolleranza?
“Una soglia di tolleranza è una scelta politica. Il dibattito scientifico si rivolge piuttosto a valutare quanto rigore finanziario è necessario per un buon funzionamento dello Stato. Si è rinnovato un po’ questo dibattito, per esempio, nel momento in cui i tassi di interesse erano negativi e permettevano di finanziare degli investimenti a un costo basso, anzi negativo. Di base sono due scuole accademiche, quella del rigore finanziario che si basa un po’ sull’idea di frenare l’appetito dello Stato, e un’altra scuola che si focalizza sull’utilizzo delle risorse per offrire al cittadino un livello di qualità di beni e servizi erogati dal Governo che che sia quello voluto dalla società”.
Quello che emerge oggi è anche la volontà che tutti partecipino a questi sforzi. Dunque tutti gli ambiti e tutti i dipartimenti. Possiamo parlare insomma di tagli lineari. È una buona scelta questa?
“In teoria sì, in pratica lo è raramente. È comunque una decisione politica. Chiaramente dal punto di vista economico se si possono produrre gli stessi beni e servizi con meno risorse, è un discorso di efficienza e sono dei tagli favorevoli. Quando invece si incide sul livello e qualità del servizio, è lì dove gente come me o istituti come l’IRE possono dare un contributo. In inglese si parla di “evidence based policy”, cioè scelte politiche basate su una valutazione scientifica del problema. Il discorso al quale vorrei contribuire è piuttosto quello di valutare scientificamente gli impatti dei vari tagli”.