Le PFAS, ossia le ormai famigerate sostanze perfluoroalchiliche, suscitano da tempo preoccupazioni poiché costituiscono degli inquinanti eterni. In Ticino è da anni che se ne verifica la presenza nei pesci dei laghi. E un ultimo studio ha evidenziato che la concentrazione di queste sostanze negli agoni è nettamente superiore ai limiti appena introdotti: la media è infatti di 21 microgrammi al chilo quando il limite stabilito dall’ordinanza federale è di 2 microgrammi.
La presenza di PFAS nei pesci non è mai stata lasciata al caso. Il Ticino è stato pioniere, con un primo studio 10 anni fa. Ora c’é anche un’analisi nazionale, la quale afferma che i pesci possono accumulare queste sostanze a livelli che possono comportare anche rischi per la salute: in particolare in alcune specie ittiche, come il coregone e il cavedano.
Le PFAS sono sostanze “molto persistenti, bioaccumulabili e potenzialmente tossiche” che i pesci, “soprattutto quelli a monte della catena alimentare” possono effettivamente accumulare, osserva Nicola Solcà, responsabile della Sezione protezione aria, acqua e suolo (SPAAS), aggiungendo che si tratta di un problema molto importante ma non di “una sorpresa totale, purtroppo”. Anche perché i risultati si basano su un’analisi effettuata in Ticino, per conto della Commissione internazionale per la protezione delle acque italo-svizzere. Dal 2015 ad oggi non si nota una grande differenza: le concentrazioni di PFOS (acido perfluoroottansulfonico) negli agoni sono in crescita di oltre il 20%; in calo per i persici.
Il dato, afferma Solcà, rappresenta da un lato “un po’ una sorpresa”, dal momento che questa sostanza in particolare “è stata fortemente limitata o vietata dal 2011 in Svizzera, ma anche in Europa”. Ci si aspetterebbe quindi di constatare una qualche tendenza positiva, anche se forse “è ancora troppo presto per vedere gli effetti di questo divieto”. A perdere terreno sono invece altri microinquinanti come il DDT, ad esempio, la cui concentrazione risulta ridotta della metà. Qui, si vedono effetti di “divieti o comunque limitazioni” che “sono più datati nel tempo”, risalendo addirittura agli anni ‘70 o ‘80 dello scorso secolo. Si vede quindi che “una politica ambientale lungimirante” è alla base del “contenimento di queste possibili esposizioni e porta a “ degli esiti positivi.
Ora però sono le famigerate PFAS a destare preoccupazione. E una concentrazione di 21 microgrammi per chilo, a fronte di un limite fissato a 2, non può che far riflettere. Ma come mai, allora, non c’è un divieto di pesca dell’agone viste queste concentrazioni molto al di sopra dei limiti di legge? Questi “sono molto recenti” e “in vigore da quest’anno”, risponde il responsabile cantonale, aggiungendo che i dati citati sono stati raccolti nel quadro di “un monitoraggio ambientale che non è adatto allo scopo di applicare la legislazione alimentare”. Solcà precisa però che sono in corso da parte del Laboratorio cantonale “analisi proprio preposte a questo scopo, molto più robuste” e che debbono anche “soddisfare certi criteri analitici più precisi”. Perché attualmente le normative ambientali non vanno a braccetto con quelle alimentari.