Si potrebbe partire dai numeri: dai 92 anni di cui almeno 70 di carriera musicale, dai 5 Oscar e 54 nomination (ne ha di più Walt Disney, vabbè), dai 26 Grammy. Ma c’è un’intera pagina di Wikipedia dedicata solo ai premi vinti da John Williams, per chi volesse provare la vertigine di leggere quella lista di successi.
Forse è meglio partire da una serata di inizio 2020, quando Williams compare davanti al pubblico della Musikverein di Vienna per dirigere la Wiener Philharmoniker: applausi a scena aperta, e pubblico che si alza in piedi appena sale sul palcoscenico. È capitato a tutti di vedere standing ovation nei grandi teatri, ma è piuttosto raro che succeda prima ancora che il concerto cominci. Dopo la prima prova con la stessa orchestra, i presenti raccontano che quasi tutti i musicisti si erano fermati per chiedere autografi e fotografie. Il trattamento è quello riservato di solito a una popstar, insomma. E senza riaprire la discussione sulle possibili sovrapposizioni tra classica e pop in periodi storici diversi (Giuseppe Verdi era una popstar, nella Milano dell’Ottocento?), è il caso di prendere atto che quella di John Williams è senza dubbio la musica classica più conosciuta tra quella prodotta negli ultimi settant’anni, oltre che la più venduta. La colonna sonora di “Star Wars” (ancora numeri?) è notoriamente l’album di musica sinfonica più redditizio della storia, con oltre 4 milioni di copie piazzate in tutto il mondo (le registrazioni con la Wiener Philharmoniker citata poco sopra ne hanno vendute centomila, cifra che negli anni Venti del ventunesimo secolo fa stappare lo champagne alle case discografiche).
Ascoltare il concerto di Vienna fa scoprire che, se i film risultano terribilmente piatti senza le sue colonne sonore, la musica invece trasporta in altre dimensioni anche quando è priva del supporto delle immagini, e le pellicole cominciano inevitabilmente a scorrerti in testa. Qualcuno dice esattamente il contrario, certo. Ma forse si tratta di una di quelle rarissime persone nel mondo occidentale che non hanno mai visto “Star Wars”. (Spoiler per chi non avesse voglia di cliccare sul link: no, si tratta di Norman Lebrecht, uno dei più noti critici inglesi e voce di BBC Radio 3. Ma se non apprezza Williams, non siamo amici.)
A proposito di “Star Wars”, la leggenda dice che George Lucas chiamò al telefono Steven Spielberg per fargli ascoltare la prima esecuzione (da parte della London Symphony Orchestra) della musica del suo film della vita: era stato proprio Spielberg, amico e mentore, tredici anni più vecchio di Lucas, a consigliargli quel compositore che con lui aveva lavorato su “Sugarland Express” e soprattutto “Lo Squalo”. Spielberg aveva fiducia illimitata in Williams, che si era preso sulle spalle proprio “Lo squalo”, fornendo un’idea musicale talmente forte da poter sostituire parte della produzione: il grande squalo meccanico che il regista aveva fatto costruire spesso non funzionava, costringendolo a pause forzate nelle riprese. Ma se anche l’immagine dello squalo mancava, la presenza del mostro poteva comunque essere suggerita dalla musica.
L’aneddoto è solo uno dei tanti contenuti nei novanta minuti abbondanti di “Con le musiche di John Williams”, il documentario da poco disponibile su Disney+ diretto da Laurent Bouzereau, che si occupa di celebrare (è la parola giusta) il mito williamsiano. Il franco-americano Bouzereau è – anche lui – uno degli uomini di fiducia di Spielberg, che gli ha già affidato la realizzazione di diversi documentari e making of relativi ai suoi film, a partire dallo stesso “Lo squalo”. Bouzereau che non sembra essere interessato a illuminare lati oscuri della vita e della carriera di John Williams, né a rispondere alla grande domanda che lui stesso mette all’inizio del film: come ha fatto?
Già: come ha fatto John Williams a comporre, nel corso di settant’anni, centinaia di temi musicali (solo nei film di Star Wars ce ne sono 62, e qualcuno si è anche preso la briga di catalogarli), dei quali almeno una cinquantina celeberrimi, e una decina leggendari? La spiegazione del film non va oltre il talento, o il genio. Ma va bene lo stesso: la semplice celebrazione è abbastanza, l’importante è che sia accompagnata dalla musica.
Che sia stato talento naturale, semplice e purissimo, è anche possibile. Del resto è anche la teoria di Steven Spielberg: se ci fosse stato un altro segreto, forse almeno lui l’avrebbe capito, dopo aver lavorato con John per tutti i suoi film (tranne tre: “Il colore viola”, “Il ponte delle spie” e “Ready Player One”).
Per la famiglia Williams, infatti, la musica è parte del DNA: «Gli amici dei miei genitori erano tutti musicisti», dice John a un certo punto del film, «e pensavo che la musica fosse quello che facevano tutti, da adulti». John è il figlio di un percussionista jazz; i suoi fratelli hanno seguito le orme del padre; il figlio di John, Joseph, è il frontman del gruppo rock Toto, che tutti ricordano come one-hit wonder per “Africa” del 1982 (i Toto meritano di più, ma questa è un’altra storia).
Pur ammettendo che sia esistita una predisposizione naturale, un qualche ruolo devono averlo giocato anche gli incontri artistici, fin dai tempi in cui John frequentava l’Università della California e prendeva lezioni dal compositore Mario Castelnuovo-Tedesco, mitico musicista italiano di origine ebraica costretto a emigrare dalle leggi razziali del fascismo, che trovò il successo oltreoceano e nella seconda parte della sua carriera finì per insegnare anche a un altro allievo piuttosto brillante, Henry Mancini (quest’ultimo da parte sua scritturò John Williams come turnista per la registrazione di alcune colonne sonore).
E ancora, se c’entrasse anche la vita personale, e più precisamente un trauma? Se è vero, infatti, che John Williams a quarant’anni era già un musicista piuttosto conosciuto, che già lavorava per il cinema e la televisione, i suoi grandi successi sono arrivati nella seconda metà della vita. E dopo un grande dolore: la scomparsa della moglie (e madre dei suoi tre) figli Barbara Ruick, attrice, morta improvvisamente a causa di un aneurisma mentre era impegnata nelle riprese di “California Poker” di Robert Altman. È stato lo stesso John Williams a definire quel momento di devastazione emotiva come quello che gli ha permesso di trovare nuove energie, e di capire esattamente quello che voleva fare nella vita. A Barbara, Williams ha dedicato un concerto per violino, completato appena prima di cominciare a lavorare su Star Wars.
Dunque, il mistero rimane. Come ha fatto, probabilmente non lo sapremo mai, e ci rifugeremo nella spiegazione più semplice (se l’ha fatto Spielberg, possiamo permettercelo anche noi normali).
Sia come sia, il suo rimane un catalogo immenso, caratterizzato da quella incredibile capacità di comporre melodie che solo i più grandi hanno avuto nella storia della musica: Williams – e spero di non essere accusato di blasfemia per questo – è il Mozart, lo Schubert, il McCartney di Hollywood. E forse varrebbe la pena, qualche volta, ricordare anche i suoi pochi fallimenti cinematografici, che però rimangono strani e meravigliosi esperimenti sonori: ascoltare, per credere, la musica composta per “Heartbeeps”, dimenticata assurdità fantascientifica di Allan Arkush del 1981, che oltre ad avere come protagonista il leggendario comico Andy Kaufman, poteva vantare un personaggio-robot doppiato dalla chitarra di Jerry Garcia. Williams per quella colonna sonora aveva messo insieme violini e sintetizzatori (un tentativo, forse, di sintonizzarsi con il clima dell’epoca?), senza perdere neanche per un secondo la sua capacità di costruire temi musicali che si depositano nell’amigdala già al primo ascolto.
In viaggio verso Castellinaria 37
Il divano di spade 16.11.2024, 18:00