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Utopia di Travis Scott: comunque vada sarà un successo

L’ultimo album del rapper texano – il primo dopo la tragedia di Astroworld – è un blockbuster musicale che non può fallire. Anche se il suo autore, in fondo, pare non avere poi molto da dire

  • 29 luglio 2023, 23:58
  • 14 settembre 2023, 09:03
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Di: Michele R. Serra

Too big to fail: come nel business, il concetto esiste anche nella musica. Che poi la musica è business, spero non esista più nessuno convinto del contrario: non solo vendere, ma perfino vendersi è un valore, anche per i musicisti, da almeno trent’anni a questa parte. Gli ultimi a considerare l’integrità artistica più importante dei soldi ci hanno lasciato nei Novanta, poi la gerarchia dei valori è definitivamente cambiata. Inutile andare contro la modernità, no?
Perdonate la divagazione, era per dire che: è uscito il nuovo album di Travis Scott, era attesissimo, e comunque vada sarà un successo. Perché, certo, i milioni di dischi venduti finora, i numeri incredibili sulle piattaforme streaming, i biglietti staccati a decine di migliaia per ogni concerto. Ma soprattutto perché Scott ha messo in piedi una incredibile macchina per produrre denaro, lui tra i primi a trasformarsi da “semplice” rapstar a vero e proprio brand capace di collaborare con altri marchi commerciali, fino a mettere la firma su edizioni speciali di scarpe e profumi, allargando la sua proposta commerciale verso pubblici diversi, arrivando a colpire consumatori che non sono neppure interessati alla musica, ma allo stesso tempo curiosamente disposti a spendere 150 franchi per una felpa con il logo di un musicista (o meglio, in questo caso, del suo marchio Cactus Jack). Come recitava una copertina di Forbes del 2020 chiosando la sua ultima partnership commerciale multimilionaria, “Se Scott riesce a rendere cool perfino McDonald’s, vuol dire che ce l’ha fatta davvero”. Questa meccanismo capace di macinare popolarità e profitti è stato appena rallentato dalla tragedia di Astroworld, il festival da lui organizzato e diretto, che nel novembre del 2021 a Houston è stato teatro della morte di nove persone schiacciate dalla folla. Ora il pubblico sembra aver dimenticato tutto, e del resto nella storia della musica non è la prima volta: i Pearl Jam a Roskilde, gli Who a Cincinnati, i Rolling Stones ad Altamont. Tuttavia è difficile non notare che, nonostante né Scott né alcuno degli organizzatori sia stato incriminato per quei morti, rispetto ai casi citati il coinvolgimento dell’artista appaia molto più profondo.
Comunque, poco importa: oggi i concerti di Travis Scott sono più affollati che mai, e i fan non sembrano interessati alle critiche che pure le sue esibizioni hanno giustamente attirato, tra canzoni tagliate dopo il primo ritornello e scalette della durata di un’ora scarsa (è successo di recente anche a Milano, davanti a poco meno di ottantamila paganti in estasi).

Per l’uscita del nuovo album Utopia, lo schiacciasassi del marketing scottiano si è rimesso in moto, con una trovata dopo l’altra. La più grossa forse non la vedremo mai: l'esibizione programmata per venerdì scorso a Giza, all’ombra delle Piramidi, è stata “rimandata per problemi logistici” secondo i comunicati di Live Nation e dello stesso artista – per il parere contrario di una commissione governativa egiziana, secondo altri. Pare ci siano altre “esperienze” in programma ai quattro angoli del mondo, ma nessun particolare al riguardo è stato reso pubblico. Del resto, visti i tempi in cui viviamo, potrebbe bastare anche solo l’annuncio di un grande concerto, per creare il giusto hype. Rimane in ogni caso l’uscita del film Circus Maximus, nelle sale del circuito americano AMC per una settimana (non vorrei ripetere ulteriormente la parola “evento”) con la firme di registi come Gaspar Noé, Nicolas Winding Refn e Harmony Korine. Parte del film consiste in una performance registrata dal vivo a Pompei poco più di una settimana fa. Inutile dire che, dopo aver venduto tutti i biglietti, i cinema statunitensi hanno aggiunto un totale di 3.500 spettacoli in quasi 200 sale per soddisfare la domanda. Viene quasi da pensare che il marketing abbia fagocitato la musica: con tutte queste spettacolari distrazioni, c’è ancora qualcuno che ha tempo per ascoltarla?

A dirla tutta, Scott non ha mai deluso le aspettative da quel punto di vista. Ovviamente dipende da quali siano le aspettative, certo, ma non si può dire che i suoi ultimi album siano stati privi di singoli epici ingegnerizzati per diventare hit istantanee: Antidote, Pick Up The Phone, Goosebumps, Sicko Mode, la lista potrebbe continuare. Fin dalle prime prove musicali nel 2013, la sua forza è sempre stata la capacità di cambiare pelle, esplorando ogni angolo del recinto dell’hip-hop contemporaneo. Magari senza arrivare a sviluppare uno stile personale inconfondibile, ma risultando sempre efficace. Fatte le dovute differenze, la Madonna del rap. E anche se dubito che nel 2050 potremo dire che Scott ha avuto lo stesso impatto sul mainstream della signora Ciccone, l’analogia potrebbe reggere.
Travis Scott è il perfetto prodotto post-moderno, figlio dell’epoca del remix in cui le idee vengono frullate, inghiottite, digerite e risputate fuori in forme nuove. Nel caso di Utopia, l’idea fondamentale è quella di costruire un album sperimentale che suoni costoso e decadente, epico e drammatico, non necessariamente orecchiabile in senso tradizionale, in qualche modo capace di mettere insieme trap e rock progressivo. In pratica, un tentativo simile a quello messo in atto da Kanye West con My Beautiful Dark Twisted Fantasy e soprattutto con Yeezus. Non è una mia deduzione personale, per carità, ma una dichiarazione piuttosto diretta dello stesso Scott: Circus Maximus, dodicesima canzone in scaletta, è una copia carbone di Blkkk Skkkn Head di West, e a meno che Mike Dean – produttore di entrambi i brani – non abbia deciso di riciclare la sua musica sperando che nessuno se ne accorgesse, si tratta di una deliberata citazione. Ye del resto è stato socio, sodale, mentore, punto di riferimento artistico per gran parte della carriera di Scott, e quest’ultimo appare tra i produttori di Yeezus.
Detto questo, e detto che sicuramente Utopia venderà più di Yeezus, ma difficilmente sarà altrettanto apprezzato dalla critica – mentre scrivo non abbiamo ancora medie di recensioni disponibili – si può concludere che forse manca (ed è strano dirlo) un singolo-hit capace di conquistare il mondo, però l’insieme riesce a costruire un mondo sonoro magniloquente e credibile, lisergico e fantascientifico. Scott sembra aver capito che ciò che gli riesce meglio è mettere insieme i talenti, e allora ecco una lista di featuring lunga come l’elenco elettorale di un piccolo paese: James Blake, The Weeknd, Justin Vernon dei Bon Iver, Sampha, Future, SZA, Drake (che prende in giro Pharrell), Pharrell (…), Bad Bunny, Guy-Manuel de Homem-Christo dei Daft Punk. Più un’altra dozzina di star, tra le quali Beyoncé, che porta alla beatificazione di ogni brano sul quale si trovi a cantare: ovviamente Delresto (Echoes) non fa eccezione.

Too big to fail, appunto: con questi nomi e queste risorse è impossibile che il risultato sia sotto la sufficienza. Si può discutere, però, se sia abbastanza, visto che si punta alle stelle: se Utopia vuole essere il Dark Side of The Moon di questa generazione - ammesso che questa ipotesi sulle intenzioni sia corretta - ovviamente non arriva neanche vicino all’obbiettivo. Chi ci riuscirebbe? Non possiamo criticare Travis Scott per questo.
Magari possiamo farlo per i suoi testi, però. Nonostante le rime siano nettamente migliorate nel corso degli ultimi anni, i contenuti rimangono piuttosto piatti: che un rapper abbia un debole per i party, i soldi e il sesso non è quanto di più rivoluzionario si possa sentire. Sembra che l’intero album sia costruito per essere sentito senza essere ascoltato: quella che una volta era la qualità fondamentale del pop, oggi è diventata forse caratteristica del rap? Meglio non farsi troppe domande, spegnere il cervello e lasciarsi trasportare dall’ultimo kolossal fantascientifico-musicale di Travis Scott, naturalmente girato in IMAX con un budget degno dell’ultimo Avengers.

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