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Rana Plaza, dopo 10 anni ancora molto resta da fare

Nel 2013 l’incidente in Bangladesh che costò la vita a oltre 1'100 lavoratori del tessile e della moda – Nonostante un accordo, si soffre sempre per salari, orari e diritti sindacali

  • 24 aprile 2023, 13:03
  • Ieri, 11:27
02:10

RG 12.30 del 24.04.2023 La diretta di Chiara Reid

RSI Info 24.04.2023, 13:02

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Di: RG/dielle 

Dieci anni fa a Dacca in Bangladesh il Rana Plaza, una palazzina che ospitava le sartorie di marche internazionali come Gucci, Prada, Versace, Primark e Zara, crollò, uccidendo oltre 1’100 lavoratori e ferendone più di tremila.

Quella del Rana Plaza è ad oggi la più sanguinosa tragedia del settore del tessile, ma anche un campanello di allarme che incitò le grandi aziende a cercare un modello di produzione più etico e sicuro. I sei piani del palazzo crollarono perché costruiti male, stipati all'inverosimile, senza alcuna precauzione per la sicurezza dei lavoratori. Fu un colpo terribile. A un mese appena dalla tragedia, fu siglato un accordo tra grandi e piccoli committenti della moda che obbliga a costanti ispezioni e a svolgere la manutenzione degli immobili. Nell’accordo mancano però ancora alcuni nomi importanti come Levi's, Walmart, Amazon, solo per citarne alcuni.

Ad ogni modo, seppur altri incidenti ci siano stati, se si considera che la produzione è duplicata in Bangladesh, i numeri sono contenuti.

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Una foto scattata nel secondo anniversario del crollo, nel 2015, sul luogo dove sorgeva l'edificio di Rana Plaza

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Sul tavolo restano molti problemi, tra cui condizioni, salari, diritti sindacali e orari

Nonostante l’accordo, non si può però dire che la moda a basso costo in Bangladesh sia auto-regolata in modo efficace, o perlomeno non del tutto. L'accordo era infatti relativo ad uno dei problemi la sicurezza sul posto del lavoro, ma i lavoratori del tessile sono ancora sottoposti a condizioni di impiego molto dure, orari già lunghi e che si protraggono a dismisura quando arriva un ordine importante, salari minimi fermi a 100 franchi al mese, mentre per vivere ne servirebbero almeno 300.

Non esistono nemmeno diritti sindacali: non appena i lavoratori si organizzano vengono penalizzati o licenziati. Non esiste insomma nessuna procedura per garantire una moda pulita ed etica dall'inizio alla fine lungo tutto il percorso, e sta ancora ai consumatori chiedere alle aziende di dimostrare la sostenibilità di tutta la catena.

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