Forse non conoscete il loro nome, forse non ne avete mai sentito parlare. Sappiate però che Ian Anderson e i suoi Jethro Tull, prima o poi, li avete certamente ascoltati. Un po’ come i pirati: ne avete ascoltato le gesta.
Parliamo di un gruppo inglese che ha solcato i mari agitati della musica degli anni Settanta a vele spiegate e come albero maestro il flauto traverso del suo capitano, Ian Anderson. Hanno segnato, anticipato, avvistato all’orizzonte ogni genere musicale. Hanno rimescolato vecchi madrigali, melodie hard rock, memorabili suite come "Thick as Brick"
o la controversa “A passion Play”; hanno impastato, agitato, mischiato rock, folk, blues e musica classica per creare qualcosa di nuovo – il “progressive rock” – lo chiamano gli esperti, di cui sono senza dubbio tra i fondatori e per molti versi i soli e veri contrabbandieri.
Album come l’eclettico “Stand up” del 1969, l’irriverente “Aqualung” del ‘71; l’ironico “Too Old to Rock 'n' Roll: Too Young to Die!” nel 1976, l’ecologista ante litteram "Songs from the Wood"
l’anno dopo, o “Stormwatch” due anni più tardi, hanno tracciato nuove rotte.
Capolavori e piccoli gioielli incastonati lungo la scia che attraversa le correnti del Rock ‘n’ Roll. Tesori nascosti sotto la sabbia di spiagge estive, che rivivono nel passato o sul ghiaccio sottile di un nuovo giorno, quasi che la vita fosse una lunga canzone, o una canzone fra i boschi scritta per Natale e cantata per l’amico Jeffrey, ad alta voce o per il proprio Dio, a Budapest, lungo le praterie americane minacciate dalle autostrade, o sulla solitaria costa scozzese di Dun Ringill. Preziosi cimeli ormai introvabili, ripescati nella cambusa di uno studio in mezzo al mare magnum di un’epoca senza paura di invecchiare e riproposti in più di 15 raccolte, una ventina di album, e una decina di concerti dal vivo.
Per non parlare dei più recenti (si fa per dire) “Crest of a Knave” del 1987 per cui i Jethro Tull vinsero un Grammy Award, “Rock Island” (1989) e “Roots to Branches” (1995-1998). Una sequela, quasi una cavalcata sulle onde di una nobiltà d’altri tempi, saccheggiando decine di gemme, perlustrando isole e grotte musicali, da un porto all’altro, senza mai perdere l’orizzonte nascosto in dietro al mare.
L'intervista a Ian Anderson
Telegiornale 13.10.2019, 20:00
Da due anni il gruppo festeggia mezzo secolo di carriera. E seppure molti dei membri storici siano ormai salpati per isole diverse, i Jethro Tull non hanno alcuna intenzione di ammainare la bandiera. La ciurma non è più la stessa infatti. A rimanere c’è capitan Ian, intorno a lui alcuni bravi marinai lo seguono nel tour. Ma il nostromo della band non è più il fedele chitarrista Martin Barre come un tempo. Anche altri membri dell’equipaggio hanno preso il largo: il bassista Dave Pegg, il tastierista Andrew Giddings e infine il batterista Doan Perry. Ma da quel lontano 1968 fino alla metà degli anni 2000 non hanno mai smesso di salpare sui palcoscenici di mezzo mondo: nei teatri, nei palasport e spesso in alcune cattedrali in rovina per cui hanno raccolto fondi. Una media di 150 concerti all’anno agli albori, ora una settantina. Tanti quanti sono gli anni del loro leader e fondatore, Ian Anderson, che per la precisione ha appena spento 72 candeline non prima però di aver pubblicato 7 album da solista.
Una voce, la sua, perduta come l’occhio di un pirata. Ma una foga, una forza e un’agilità musicale degni del più temuto corsaro. Tanto da fare il tutto esaurito a Ginevra lo scorso 10 ottobre, così come a Basilea qualche giorno prima, in occasione del suo tour in Svizzera. Lui, che pirata lo è stato davvero. Un pirata della musica e dello stile. Un pirata gentiluomo s’intende. Che non sa stare sulla terra ferma. Un’anima senza pace, ci ha detto. E molto altro.
Riccardo Bagnato