“Il 4 agosto è stato qualcosa che non dimenticheremo mai. Ancora oggi, siamo tutti traumatizzati”. Le parole di Joséphine Abou Abdo, 28 anni, sono quelle di altre migliaia di persone che hanno vissuto l’esplosione del porto di Beirut. Alle 18.08, oltre 2750 tonnellate di ammonio, illecitamente stipate nel porto della capitale libanese, sono esplose, probabilmente a causa di un primo incendio scoppiato in un’altra sezione del porto. L’enorme esplosione, sentita fino a Cipro, ha causato la distruzione di interi quartieri della città, uccidendo oltre 210 persone e ferendone 6500. Circa 300 mila persone sono rimaste senza casa. “Ho pensato fosse un terremoto all’inizio”, racconta Vicky Mansour, una donna di quarant’anni che incontriamo in quel che resta del suo appartamento, nel quartiere armeno, a poche decine di metri dal porto. “Mio marito è stato ferito, ha perso i sensi, anche i miei figli sono stati feriti. Io ringrazio il cielo che siamo vivi, ma abbiamo perso tutto. Tutti i nostri risparmi, tutta la nostra vita. Vogliamo solo andarcene da questo paese per offrire un futuro diverso ai nostri figli”.
La crisi economica, la pandemia, l’esplosione del porto, la negligenza di una classe politica corrotta al potere da oltre trent’anni hanno fatto precipitare il Paese in una crisi senza precedenti con i libanesi che non hanno più accesso ai dollari, il debito pubblico e la disoccupazione alle stelle, i medicinali quasi assenti e altissimi prezzi di beni di prima necessità. A ciò si aggiungono i suicidi, in continua crescita dallo scorso gennaio, aumentati anche dopo l’esplosione del 4 agosto. “Non c’è speranza in Libano, nessun politico ci ha aiutato, né fatto visita. Solo le ong e i nostri risparmi ci permettono di andare avanti. Come si fa a vivere in uno Stato che non tutela l’incolumità dei suoi cittadini?”, conclude Vicky.
Arianna Pagani - Sara Manisera