Arte e Spettacoli

La scena secondo Barbara Frey e Cindy Van Acker

Donne, registe e coreografe, nate a dieci anni di distanza in due mondi apparentemente lontani. Eppure qualcosa nel loro modo di creare le accomuna e le fa brillare

  • 8 febbraio, 16:15
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Speechless voices di Cindy Van Acker

Di: Valentina Grignoli 

Nel folto e variegato panorama della scena svizzero, basti pensare al plurilinguismo e alle influenze così diverse dei paesi limitrofi, tra linguaggi diversi e codici sovvertiti, classicità e rottura, collettivi e compagnie, ci sono due figure che emergono per specificità e stile. Sono donne, registe e coreografe, nate a dieci anni di distanza in due mondi apparentemente lontani. Eppure. Qualcosa nel loro modo di creare, la meticolosa cura per il pensiero e la ricerca alla base delle loro opere, l’originalità e la grandiosità, l’ascolto e la fedeltà per i propri attori/danzatori, aver realizzato spesso nel loro lavoro la convergenza di più arti, le accomuna e le fa spiccare. Del resto hanno entrambe ricevuto, nel nostro paese, il Gran Premio svizzero delle arti sceniche, Anello Hans Reinhard, una nel 2022 e l’altra nel 2023. Entrambe acute, e abili nel proporre alternative e fughe dalla durezza cui spesso siam sottoposti nel mondo contemporaneo.

Barbara Frey, uno sguardo satirico sul mondo tra letteratura e musica

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Barbara Frey

Sono quadri giganti, tableaux così ben orchestrati, le messe in scena di Barbara Frey, che se ne respira l’organicità. Le grandi tematiche della letteratura vengono trasposte in scenografie e personaggi multidimensionali, svelandoci i lati oscuri dell’esistenza. Il gioco compatto e armonico degli attori racconta attraverso il filtro di una satira dal sapore nordico un’umanità spesso sperduta. La musica è onnipresente in tutta la sua sua opera, così come quello sguardo umoristico e poetico al contempo, che si posa sulle banalità e mostruosità del quotidiano.

Regista e direttrice – la prima donna a capo dello Schauspielhaus di Zurigo, la Frey inizia la sua carriera nel 1988 come musicista e poi assistente alla regia in quella meravigliosa fucina di talenti che era il Teatro di Basilea sotto la direzione di Frank Baumbauer, insieme a Matthias Lilienthal, Frank Castorf e Christoph Marthaler. Subito si impone sulla scena grazie all’attenta e approfondita lettura dei testi letterari, a partire dalla sua prima regia nel 1993 su un testo di Sylvia Plath, Ich kann es besonders schön.

Letteratura che spazia da Shakespeare al contemporaneo Lukas Barfüss, con il quale creerà un sodalizio artistico rafforzatosi proprio allo Schauspielhaus anni dopo. Dopo Basilea, porterà in scena spettacoli nei grandi teatri di Mannheim, Amburgo, Monaco, Dresda e Salisburgo per poi essere ingaggiata spesso a Berlino in residenza alla Schaubühne e al Deutsches Theater.

Nel 2009 la direzione a Zurigo fino al 2019 e poi il festival tedesco Ruhrtriennale per qualche anno, continuando più avanti la sua collaborazione regolare con il Burghteater di Vienna.

Qui a fine novembre il nuovo direttore Stefan Bachmann ha deciso di riproporre alcune sue opere e una nuova produzione, un Tartuffe di Molière di sapore contemporaneo.

«C’è una strana ironia rispetto a quanto sta accadendo ora con Donald Trump» – commenta Barbara Frey. «Ma il teatro non si deve limitare a raccontare la realtà come i giornalisti, la deve trasformare, altrimenti non esisterebbe la satira. Non è interessante imitare un personaggio come Trump, lo è più il cercare di capire perché ci affezioniamo a un personaggio del genere. Come nella pièce di Molière». Forse perché è nata come batterista, ma non solo per questo, la musica è parte preponderante del suo lavoro «è tutto. La più astratta di tutte le arti, e allo stesso tempo estremamente concreta. Nella mia opera tutto è musica, anche le lingue e il modo in cui le persone si muovono».

Un corpus di opere, il suo, forgiato da letteratura classica e contemporanea, opere che sembrano arrivare alla regista attraverso l’intuizione: “Perché un testo mi interessi deve balzarmi addosso come un pesce, muovere qualcosa nella mia testa e nel mio cuore. Il primo appuntamento con la drammaturgia è organico. Il testo ha sempre dei segreti, mi deve però dare un’entrata, come un labirinto: si inizia da una domanda e poi voltato l’angolo ne sorgono altre». Sono domande alle quali la regista tenta di trovare risposte insieme al gruppo di attori con cui si trova a lavorare, seguendo quella vocazione di lavoro condiviso dove il regista cerca sempre di non dirigere ma co-creare. Infatti sostiene di non essersi mai vista come solista, «bisogna passare attraverso gli altri. Chiedere cosa provano, cosa pensano, quali sono secondo loro le risposte alle mille domande che scaturiscono da un testo».

Barbara Frey sembra essere nata per il mestiere che fa, e scorpiamo che le scintille primigenie di questo fuoco hanno iniziato a crepitare con fiabe dalle fiabe: «Mia nonna era un’eccellente raccontatrice di storie, aveva uno stile specifico e questo gigantesco vecchio libro che apriva per me e le mie sorelle, girava le paginone lentamente... è stato lì che per me si è aperto il mondo dell’immaginazione: mi sono sentita libera in quelle fiabe, tutto poteva accadere! Poi il cinema: i western nella piccola televisione a casa della nonna e poi il permesso a 12 anni di poter andare al cinema da sola tutti i mercoledì pomeriggio. Dopo tutto ciò… è arrivato il teatro!» . Un teatro che oggi gode di retrospettive di rilievo, come quella a Vienna, dove oltre al Tartuffe verranno rappresentati Automatenbuffet di Anna Gmeyner e Das Weite Land si Arthur Schnitzler.

Barbara Frey è una regista che trae ispirazione oggi dall’arte in maniera vasta. Che siano dipinti o opere musicali, è sempre attenta a scovare quei piccoli dettagli che di un’opera possono accendere il mistero e delineare una possibile storia. Costruendo così quell’estetica a volte surreale a volte estremamente concreta attraverso la quale porta sulla scena la grande letteratura.

Le sinestesie sensoriali di Cindy Van Acker: ascoltare la luce, danzare le parole, sfiorare il suono

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Cindy Van Acker

  • Gregory Batardon

L’universo nel quale inizia a muoversi Cindy Van Acker invece, nata nel 1971 in Belgio, è quello della danza classica. Da Anversa poi al Royal Ballet of Flandres per poi approdare al Grand Théâtre di Ginevra. «Quello che amavo della danza classica era fare tutti i giorni gli stessi passi, la ripetizione. Solo così si può andare più in profondità nelle cose, si entra nel corpo, si comincia a sviluppare una coscienza sottile dell’interiorità». È dal 1994, dopo essersi affermata nella scena della danza contemporanea ginevrina, che comincia a produrre i suoi lavori. Fonderà la Compagnie Greffe nel 2002 in occasione di Corps 00:00, che la porterà al riconoscimento internazionale.

Ma tutto ha inizio in una chiesa. «La prima volta che ho sentito la voglia di creare è stato durante una messa in memoria di mia zia, morta all’età di 16 anni. Trovavo i riti disumanizzati. Il prete parlava in maniera automatica, non era all’altezza della persona che stava celebrando. È stata come una presa di coscienza, il teatro del simile, del non vero. Volevo farle onore: un giorno avrei creato una pièce per lei. Il mio risveglio della creazione è nato in opposizione con la realtà, da una sensazione di ingiustizia».

Una danza poi soprattutto formale e astratta quella di Cindy Van Acker, che si compone manipolando il tempo e il corpo. Gioca con presenza e assenza nel tentativo di aprire, nello spettatore e nel danzatore, a luoghi immaginari che possano superare la forma stessa. Sembra incredibile, parlando di corpi fisici che danzano in uno spazio, e invece nelle sue performance accade proprio così. Grazie alla musica, spesso elettronica, ma anche con una scrittura coreografica che combina estetica sobria e raffinati movimenti in composizioni meticolose. Corpi, musica e spazio confluiscono in un tutt’uno.

L’artista si fa guidare da un primo impulso, un’intuizione, «che poi ritrovo in altre opere d’arte: il cinema, la pittura, la letteratura; tutto quello che sembra risuonare con questo primo impulso, mi da informazioni importanti sull’opera a venire. Può essere un colore poetico, o informazioni concettuali».

Il suo assolo Corps 00:00 (2002) è andato in scena alla Biennale Teatro, dove ha conosciuto Romeo Castellucci che «nel 2007 mi ha chiesto di lavorare per lui. C’è un’intesa profonda, estetica e artistica. Non passa per forza dalla parola. Abbiamo una maniera molto diversa di lavorare, io parto da una pagina bianca lui invece da un’opera, una materia prima. Quindi quando lavoro per lui sono come un’artigiana, riesco a riconoscere la sua visione, dove vuole arrivare, e creo così il movimento che può servire alle sue opere».

Cindy Van Acker è responsabile della coreografia di opere come l’«Inferno» del 2008, spettacolo d’apertura del Festival d’Avignone al Palazzo dei Papi, il Parsifal nel 2011 per il teatro dell’opera La Monnaie di Bruxelles, Moses und Aron nel 2015 per l’Opéra di Parigi, e il Don Giovanni nel 2021.

In Quiet light, l’ultima creazione, che ha debuttato al LAC di Lugano lo scorso anno e che aprirà l’attuale edizione del FOG festival alla Triennale di Milano, «sono partita dal concetto di silenzio della luce, che ho ritrovato in un libro dallo stesso titolo. Anche Spazi Bianchi, di Paul Auster, ha la stessa tonalità». È questa l’affinità che cerca la Van Acker. In Quiet light però centrale è stato il lavoro con i dipinti del pittore fiammingo Léon Spilliaert: un artista di difficile classificazione, vicino al simbolismo, ma anche all’espressionismo e talvolta ai limiti dell’astrattismo. «Ho visto l’esposizione a lui dedicata alla Fondation Ermitage di Ginevra. Di giorno mi immergevo nelle sue opere, sceglievo una sala, ingurgitavo tutta la poesia e la sera cercavo di restituirla con una performance». Delle tele di Spillaert lo spettacolo attuale, messo in scena da due storiche danzatrici di Van Acker, Stéphanie Bayle e Daniela Zaghini, conserva gli orizzonti vaporosi, l’inchiostro della notte, la forza dei paesaggi marini e le apparizioni insolite. E come dire la luce con il corpo? «La luce è materia, come la musica e il corpo. È giustamente l’incontro di queste materie che fanno sì che possiamo ascoltare la luce e toccare il movimento».

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