Cinema

“Il deserto rosso” di Antonioni

Ambientato in una Ravenna in pieno sviluppo industriale, avvolta da fumi e rumori opprimenti, il paesaggio è una distesa di fabbriche e ciminiere

  • 2 gennaio, 11:21
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Di: Raffaele Pedrazzini 

Ne Il deserto rosso, Leone d’Oro a Venezia del 1964, e prima pellicola del regista ferrarese in technicolor, Giuliana (Monica Vitti) vive un distacco dal mondo che la circonda.

Giuliana, moglie dell’ingegner industriale Ugo (Carlo Chionetti), ha subito un grave trauma in seguito ad un incidente automobilistico. Quotidianamente si trova a lottare con ansie e un senso di perenne disconnessione dalla realtà: «C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice.». Mentre cerca sollievo dalla sua angoscia, incontra Corrado (Richard Harris), amico del marito alla ricerca di lavoratori per una missione industriale all’estero. Tra i due nasce un legame ambiguo: Corrado sembra attratto da Giuliana, ma è anch’egli intrappolato in un’esistenza priva di direzione. Le interazioni tra i due, similmente a quanto avviene nella trilogia dell’incomunicabilità, si rivelano inconcludenti e superficiali. Corrado offre a Giuliana un appiglio temporaneo, ma entrambi paiono incapaci di trovare una reale connessione.

Giuliana: Mi sembra di avere gli occhi bagnati. Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?

Corrado: Tu dici “cosa devo guardare?” io dico “come devo vivere?” è la stessa cosa.

Seppur centrata sulla crisi esistenziale della protagonista, Antonioni porta qui il discorso dell’incomunicabilità a un livello più profondo. Giuliana non solo fatica a relazionarsi con il marito e le persone, ma è in perenne conflitto con sé stessa. Il campo d’indagine ora è il sé in relazione con il sé. Sebbene Giuliana soffra di un disagio psichico che Antonioni volutamente evita di definire in modo esplicito, il suo tormento interiore trova una potente eco nello scollamento, sempre più marcato, tra la dimensione naturale del mondo e il progresso della società industriale. Quest’ultima si presenta come un’entità fredda, estranea, priva di ogni calore umano e di autentica comprensione, esattamente come i colori artificiali che pervadono la pellicola. La natura stessa è vittima di una violenza silenziosa e devastante. Il mare appare corrotto dagli scarichi industriali, la terra è sterile. È dunque l’intero ecosistema a emergere in uno stato di profonda crisi, uno scenario che Antonioni coglie a Ravenna, cui paesaggio, radicalmente trasformato dall’espansione economica del dopoguerra, diventa emblema del conflitto tra passato e presente. Qui, le pinete un tempo dominanti sono soppiantate da raffinerie, tralicci e piattaforme petrolifere.

L’incidente vissuto dalla protagonista, vero leitmotiv del film, in realtà forse un tentativo di togliersi la vita, si trasforma in un’accresciuta sensibilità. La sofferenza di cui si permea la vita di Giuliana sembra aprire una porta verso una percezione più acuta e intensa del mondo circostante, richiamando l’idea comune che stati di dissidio interiore possano condurre a una visione più completa della realtà.

Corrado: Ma che cos’hai?

Giuliana: Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca!

Giuliana: Tu non mi ami, vero?
Corrado: Perché me lo domandi?

Giuliana: Non so neanch’io perché. Non mi basta mai. Perché devo avere sempre bisogno degli altri? Io devo essere cretina. È per questo che non me la so cavare. Sai cosa vorrei? Tutte le persone che mi hanno voluto bene, averle qui attorno a me come un muro.

Il dolore che affligge Giuliana si rivela tuttavia insopportabile, e questo la spinge alla fuga. Certo, non solo attraverso il tentato suicidio, ma soprattutto con le innumerevoli visioni in cui trova rifugio e che alterano la realtà. Emblematica è la favella che racconta della spiaggia di Budelli (Sardegna) dove una ragazzina, immersa in un luogo che evoca un ritorno a uno stato primordiale, vive in perfetta armonia con la natura. Mancanza che Giuliana avverte con disperazione.

Giuliana: Scusi… può dirmi… io non volevo, non… su questa nave possono viaggiare anche le persone? […] io non posso decidere, perché non sono una donna sola, per quanto a volte, è come [se fossi] separata. Non da mio marito. Dai corpi, i corpi sono separati. Se lei mi punge, lei non soffre, vero? […] io sono stata malata, ma non devo pensarci… cioè io devo pensare che tutto quello che mi capita è la mia vita. Ecco. Mi dispiace. Scusi.

Eppure, nel finale, Giuliana racconta al figlio degli uccellini che hanno imparato a evitare i fumi velenosi, una metafora quasi naturale del suo stesso tentativo di adattamento. Anche lei, come quegli uccelli, cerca una strategia per sopravvivere in un mondo che non le appartiene più. L’umanità può forse sfuggire al veleno della modernità, ma non senza portarne i segni. La ricerca di un fragile equilibrio diventa, così, l’unica risposta possibile a una realtà sempre più ostile.

Valerio [indicando la ciminiera della fabbrica]: Perché quel fumo è giallo?

Giuliana: Perché c’è il veleno.

Valerio: Ma allora se un uccellino passa lì in mezzo muore.
Giuliana: Ma ormai gli uccellini lo sanno e non ci passano più. Andiamo.

09:35

Addio a Monica Vitti

Diderot 02.02.2022, 17:10

  • Keystone

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