Nessuna rinascita. Che Darren Aronofsky sia un regista afono in smancerie, narratore dritto, secco, a tal punto da accarezzare la ferocia, abbiamo imparato a conoscerlo in venticinque anni di carriera, in un Leone d’oro e in tanta critica. Eppure bastava fidarsi dell’incipit, di quell’esordio di ventunesimo secolo che portò sul grande schermo il suo Requiem for a Dream, seconda regia del newyorkese due anni dopo π -l teorema del delirio (π , 1998). Sarà il pessimismo da fine secolo, saranno gli studi antropologici a Harvard, sarà il tema tossicodipendenza, ma signori e signore: “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Requiem for a Dream, se il titolo non fosse bastato a presagire la tragedia, è un film suddiviso in stagioni: quattro meno una, la primavera. Solo estate, autunno e inverno. Chiaro? Nessuna fioritura, nessun risveglio da quel sogno con orazione funebre. Requiem for a Dream è un film sulle dipendenze costruito con gli stilemi della dipendenza. È la storia di Sara (Ellen Burstyn), di suo figlio Harry (Jared Leto), della sua compagna Marion (Jennifer Connelly) e del suo amico Tyrone (Marlone Wayans). Ogni storia ne interseca un’altra formando o un trittico (Harry-Marion-Tyrone), o una coppia (Harry-Marion, Sara-Harry o Harry-Tyrone). Soprattutto, è la storia di quattro assolo assordanti: quello di Harry, eroinomane, quello di Sara, che a dipendenze può addirittura scegliere tra TV e anfetamine, quello di Tyrone, eroinomane quanto l’amico e quello di Marion, idem con aggiunta di attrazione fisica, o chimica. Con l’aggravante che ogni rapporto tra i quattro protagonisti invece che sommare le forze moltiplica il dolore; invece che essere di sostegno innesca gironi danteschi: di (s)fiducia, passione, asocialità, desiderio nero e buia solitudine.
Sara (Ellen Burstyn)
Tratto dall’omonimo romanzo di Hubert Selby Jr., che nel film gioca un cameo, Requiem for a Dream è un’opera sull’abilità umana a distruggersi. A corrompersi e corrodersi in spirali d’oblio. Un film faticoso e pure dannatamente affascinante, esattamente come il male. Esattamente come l’eroina. Un film che per raccontare la dipendenza, la crea. Dipendenza dalle immagini. Montato da Jay Rabinowitz, chef di quasi ogni Jim Jarmusch, di 8 Mile di Hanson/Eminem (2002) e dieci anni dopo di The Tree of Life di Malick (2011), è una gragnola ordinata e irresistibile di immagini. Il racconto ripetuto del “farsi”, della dose, è un hyper-montaggio di pochi secondi, un frammento di musica elettronica senza musica, un’allucinazione chimica. È perfetta sintesi: eroina. La vedi, ti chiedi “cosa ho appena visto?” e aspetti solo di rivederla, identica a sé stessa.
Se un film di 100’ mediamente conta 600 tagli, Requiem for a Dream ne mitraglia 2000. Qualcuno lo ha chiamato hip hop montage (e qui torna Eminem), ma non basta. Perché la costruzione del film, il suo insieme di stratagemmi e attrezzi audiovisivi è ancora più complesso. È fast motion, time-laps, snorricam (la macchina da presa montata sull’attore) e uno degli split-screen più sensati e significanti del cinema. È la fotografia glaciale di Matthew Libatique, che esattamente come il ghiaccio balla tra ustione e ipotermia. È nevrotico e psicotico, letteralmente drogato. Altro che montaggio invisibile, in Requiem for a Dream il montaggio è sostanza, iniezione, pupilla spalancata. E quando il ritmo cala, quando percepisci di poter mollare il bracciolo del divano semplicemente perché hai ricominciato a respirare, ecco la crisi d’astinenza. Per cento minuti si è letteralmente fatti di immagini.
C’era una volta in America, L’esorcista, Scary Movie e i Thirty Seconds to Mars. Questo è riuscito a mettere insieme, sotto lo stesso tetto, dentro lo stesso set, Darren Aronoksky. Jennifer Connelly, l’undicenne Deborah che all’esordio cinematografico accese gli ormoni di Noodles (Once Upon a Time in America, 1984) e qui lascia che si sbriciolino e anestetizzino insieme a quelli di Harry. Ellen Burstyn, mamma della stramaledetta Regan/Linda Blair in The Exorcist (1973) e qui di un’ignorante dolcezza smarrita; Marlon Wayans, che presto in Scary Movie avrebbe monetizzato la semplicità che qui lo condanna; e Jared Leto, che è Jared Leto. Un cast preciso e perfetto, capace di muoversi tra violenza e vita domestica, sentimento e allucinazione, poltrone e asfalto. Un cast a cui Aronofsky chiese tantissimo, ad esempio di non avere rapporti sessuali nei trenta giorni precedenti le riprese per provare e capire una crisi d’astinenza, e da cui ottenne tantissimo. Forse di più.
E poi c’è Darren Aronofsky e basta, lui, il documentarista dei corpi e della psiche, abilissimo osservatore e narratore del genere umano e del suo smarrimento individuale, dell’inesorabile scivolamento fuori dalla società del singolo. Capace di muoversi tra esseri viventi affaticati dal proprio esistere, in lotta con qualcosa che non riescono a governare, pur corrispondendo con il proprio corpo: The Wrestler (2008), Il cigno nero (Black Swan, 2010), The Whale (2022). Aronofsky sa come si osserva e come si mostra un corpo che contiene sofferenza, sia essa steroidi, grasso (troppo o troppo poco), o eroina. Lo fa standogli letteralmente addosso, se la condanna è psicotica e chimica, o a distanza e con fatica, lasciando che a riempire lo spazio sia il corpo stesso, se la condanna è obesa. Ma a qualsiasi distanza, e a qualsiasi velocità, il risultato è lo stesso, e identico a quello di quei corpi: si soffre. Come sopravvivere? Con la consapevolezza, e fortuna, di essere da questa parte dello schermo.
"The Whale"
La Recensione 03.05.2023, 10:35
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