L’intervista

Maha Haj: “Non amo il cinema in cui l’aggressività, la violenza e il sangue sono necessari”

Alla RSI parla la regista palestinese premiata a Locarno con il toccante “Upshot”, un’opera che riesce a trasmettere gli effetti devastanti della guerra senza mostrarli direttamente.

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Intervista a Maha Haj

RSI Cultura 21.08.2024, 16:55

Di: Lorena Pianezza

Maha Haj è una regista e sceneggiatrice palestinese con cittadinanza israeliana. Si è laureata all’Università Ebraica di Gerusalemme in letteratura inglese e araba. Ha cominciato la sua carriera nel cinema come scenografa in “Il tempo che ci rimane” Elia Suleiman e “The Attack” di Ziad Doueiri. Parallelamente, ha scritto e diretto il cortometraggio Oranges (2009) e il documentario Within These Walls (2010). Nel 2016 ha diretto Personal Affairs, presentato con grande successo di critica nella sezione “Un certain Regard” del Festival di Cannes. Nel 2022, il suo film “Mediterranean Fever” ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura a “Un certain Regard”.

“Per il gesto cinematografico compiuto, umanista e dignitoso di fronte al buco nero dell’ingiustizia e della guerra. E perché la presenza dei nostri cari non può essere uccisa, annullata, cancellata ma ci rende ancora più vivi nel loro nome”, con questa motivazione la talentuosa regista palestinese Maha Haj è stata premiata con il Pardino d’Oro per il miglior corto d’autore con Upshot alla 77esima edizione del Locarno Film Festival . Un secondo premio le è stato conferito dalla Giuria Giovani.

Upshot è un cortometraggio intenso e potente che tocca le corde emotive degli spettatori. Racconta la monotona routine quotidiana di Lubna e Suleiman, una coppia palestinese che vive in un casolare di campagna. Lei si occupa della casa e delle galline, lui di un grande campo di ulivi. La loro è una vita molto solitaria; le giornate sono scandite dai pasti e dai battibecchi sui cinque figli, oramai adulti, e dalle loro scelte di vita, non sempre condivise dai genitori. Quando un giornalista si presenta inaspettatamente alla porta della coppia, per parlare del loro passato, la storia prende una piega del tutto inaspettata e viene alla luce il dramma che si cela dietro l’apparente tranquillità dei coniugi.

Il colpo di scena che ribalta la storia è estremamente d’impatto e dimostra tutta l’abilità sia nella scrittura che nella regia di Maha Haj, che riesce a trasmettere gli effetti devastanti della guerra senza mostrarli direttamente perché, come dice: “Il cinema che mi piace non è un cinema in cui l’aggressività, la violenza e il sangue sono necessari. Penso che il cinema sia l’arte di condensare emozioni e immagini e ho fiducia negli spettatori, nel loro cuore, nella loro mente e immaginazione”.

Per quanto riguarda la recitazione, anche Mohammad Bakri e Areen Omari, nei panni di marito e moglie, interpretano in modo convincente il tema della negazione come scelta consapevole per affrontare il lutto.

Girato prima del 7 ottobre, Upshot non ha avuto bisogno di modifiche perché quello che è successo a Gaza in seguito agli attacchi di Hamas è quello che, su scala più piccola, avviene da anni, in particolare dal 2008. Maha Haj con il suo film prova ad immaginare come sia possibile superare il dolore, l’immensa sofferenza di chi perde i propri cari.

Il film segue il graffiante ed ironico Mediterranean Fever, premiato per la miglior sceneggiatura a “Un Certain Regard” al Festival di Cannes 2022.

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Il lungometraggio racconta la storia di un’amicizia tra due vicini di casa a Haifa: Waleed, scrittore depresso e in piena crisi creativa, e Jalal, uomo energico e invadente, coinvolto in loschi traffici. Pur essendo come il giorno e la notte, i due cominciano a passare molto tempo assieme, e Waleed vede nel suo nuovo amico il soggetto per una possibile storia da scrivere, come anche un improbabile maestro da cui imparare la praticità della vita. 

Il titolo fa riferimento alla malattia che sembra aver colpito uno dei figli di Waleed, una sindrome che colpisce le popolazioni del bacino del Mediterraneo e che si manifesta con attacchi ricorrenti di febbre. Il conflitto arabo-israeliano permea l’intera narrazione e la febbre mediterranea che viene rilevata nel figlio diventa una metafora chiave, la rappresentazione del peso psicologico e politico dell’essere palestinese ad Haifa. La depressione di Waleed non è solo un fatto intimo e personale, ma anche la risposta inconscia alla condizione di esilio in casa propria, vissuta dai palestinesi.

I cittadini palestinesi di Israele, detti anche i palestinesi del ’48, sono gli arabi che possiedono la cittadinanza israeliana: si tratta di circa due milioni di persone, discendenti dalla popolazione araba rimasta all’interno dello Stato di Israele durante la Nakba, l’espulsione della popolazione palestinese in concomitanza alla creazione di Israele nel 1948. Tra i cosiddetti palestinesi del ’48 ci sono musulmani, cristiani, drusi e comunità beduine, e a oggi corrispondono a circa il 20% della popolazione del Paese.

Locarno, l'ultima serata

Telegiornale 17.08.2024, 20:00

  • Keystone
  • Mohammad Bakri
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