Cinema

Oltre a Barbenheimer 

“Gli spiriti dell’isola” è il film da salvare del 2023: una fiaba irlandese feroce e delicata

  • 30 dicembre 2023, 15:05
  • 2 gennaio, 11:04
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Colin Farrell e Brendan Gleeson in: "Gli spiriti dell'isola"

Di: Valentina Mira

Per chi ama la letteratura, un aspetto di Il vecchio e il mare non può non colpire: il fatto che Hemingway, di questo peculiare libretto (poco più di 100 pagine), abbia negato con forza ogni valenza simbolica. Si presta a una riflessione così profonda e vera sull’umanità che per qualunque lettore è scontato che questa riflessione sia voluta. Che si sia al cospetto di una chiara metafora. Peccato che Hemingway stesso dicesse che no; lui voleva solo raccontare un uomo che va a pesca.

Che fosse una posa dell’autore oppure la verità è impossibile da stabilire. È anche poco rilevante. Perché, al di là della sua intenzione, il successo di quel libro deriva proprio dal fatto che il modo in cui è raccontato quell’uomo in lotta contro l’oceano si presta a qualcosa di molto più interessante ed eterno di un tizio che va a pesca. È la vittoria assoluta dello show don’t tell: quando lo fai senza volerlo. Quando la cosa che racconti la racconti talmente bene che non sei consapevole neanche tu delle verità che riecheggia in chi la legge. Vuol dire che somiglia per davvero alla vita.

È quello che succede con The Banshees of Inisherin, che proprio per questo è film da ricordare tra quelli in sala nell’ultimo anno. Il titolo dell’ultimo lavoro di Martin McDonagh (In Bruges, Tre manifesti a Ebbing, Missouri) è stato tradotto con Gli spiriti dell’isola. Un titolo infinitamente più anonimo dell’originale; pare che si ritenesse che la figura della Banshee, una sorta di strega della mitologia irlandese, fosse poco nota, e questo benché una narrazione di massa come Harry Potter l’abbia riabilitata da un po’. A differenza della versione italiana del suo titolo, Gli spiriti dell’isola è difficile da dimenticare.

Le scuole di sceneggiatura insegnano che spesso le storie iniziano con un personaggio che arriva, o con un personaggio che parte. In questo caso, l’innesco della trama non è una nuova persona, ma in un certo senso sì: è una persona che cambia. Radicalmente, inspiegabilmente, irrimediabilmente. E, in un contesto piccolissimo come Inisherin, quest’isola nebbiosa dell’Irlanda del 1923, quel cambiamento è una rivoluzione. Il mini-sistema reagisce in blocco: lo fanno tutti, dal migliore amico al prete. Del resto, l’idea del film nasce da una frase. «I just don’t like you anymore». Non mi piaci più e basta.

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Brendan Gleeson in "Gli spiriti dell'isola"

Di che parla, dunque: il protagonista, interpretato da un fenomenale Brendan Gleeson (già Malocchio Moody in Harry Potter), realizza che non vuole più avere a che fare con quello che fino ad allora era stato il suo migliore amico (Colin Farrell), la persona con cui aveva passato la maggior parte del tempo nel contesto del minuscolo paese in cui vivono entrambi. Nasce tutto da un rifiuto. Da un “no”. Quello che accade subito dopo è incredibile. A tutti. Non a chi conosce le conseguenze di un “no” inascoltato.

Il film più femminista dell’anno ha come protagonisti quasi solo uomini. Non perché, come sostiene qualcuno, “l’abuso non ha genere”: ma proprio perché tende ad averlo. Pertanto, che quel genere s’indaghi. Il punto è che Gli spiriti dell’isola va molto, molto oltre il genere. Parla di potere. Parla di consenso. Parla di violenza. Riduce la mastodontica tematica dell’abuso all’osso, la osserva al microscopio, ne fa trama.

Il protagonista decide che il suo migliore amico non è più il suo migliore amico. Questo non lo accetta. Ponendosi come vittima per tutta la durata del film, lo perseguita. Perché?, chiede disperato e “rifiutato” in ogni modo possibile. L’altro gli dice che ha semplicemente deciso così (“no è una frase completa”, lo slogan femminista riecheggia in un film che ha il sapore di una fiaba per adulti condita di realismo magico all’irlandese). Il protagonista fa resistenza passiva. Gli dice: per ogni volta che mi rivolgerai ancora la parola, io mi taglierò un dito. Lo fa.

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Colin Farrell in "Gli spiriti dell'isola"

Ed è qui che capiamo che i due sono archetipi, quasi due anime dello stesso uomo, e contemporaneamente incarnano la dinamica vittima-carnefice nella sua dura e onesta rappresentazione. Uno solo è violento con l’altro. Quello che si lamenta di continuo di quel “no”. Quello che, fermo nel suo fregarsene del dolore che l’altro s’infligge in questo ostinato pacifismo estremista e autolesionista, continua a raccontarsi come vittima. Come un bambino che ha il diritto alla poppata materna - peccato che bambino non sia. Come quegli uomini che insistono ad andare a letto con una donna che ha già detto di no. Insomma: come uno stupratore qualsiasi.

Entrambi sbagliano. Entrambi sono ciechi di fronte all’Altro. Il primo sbaglia nel modo in cui lo fanno tutti i violenti. Il secondo nel modo di tutti quelli che non capiscono che contro i violenti esistono due risposte: andartene o capovolgere il rapporto di potere, che sia tramite la costruzione di una rete di alleanze giuste oppure con un’autodifesa che si prenda la responsabilità di essere violenta a sua volta. Pur di non ammettere la possibilità del male come reazione al male, il protagonista sta nella dinamica tossica che lo lega all’altro.
Gli spiriti dell’isola è una riflessione gigantesca e paradossale sul consenso.

Ma non solo. È anche un modo di mettere sotto la lente d’ingrandimento dinamiche sociali più grandi, ambientandole in un paese minuscolo dell’Irlanda di un secolo fa. Con tanto di Banshees, buone a segnare un distacco dal reale: come le fiabe tradizionali (prima che la Disney le spurgasse dei loro riferimenti più feroci), ci sono le streghe ma anche le mutilazioni.

Un film sull’assurdità patriarcale (non per questo solo maschile) di voler distruggere ciò che non puoi avere. E pure con la pretesa di essere un “nice guy”.

In Gli spiriti dell’isola Martin McDonagh dà sfogo alla sua passione per il folklore irlandese (i genitori venivano da lì), mischia la critica sociale parlando male di guardie e preti («Se picchiare un poliziotto è un peccato, tanto vale fare i bagagli e andarsene»), trova un ruolo in una scena madre anche alla sua cavalla Minnie (sì, McDonagh ha una cavalla e si chiama Minnie). Riflette su quanto possa essere violenta la non-violenza. Parla di cosa significhi sentirsi entitled, legittimati a fare, a dire, a essere, con qualcuno che non ti vuole, nonostante qualcuno non ti voglia, contro quel qualcuno. Su quanto non abbia a che fare con l’amore l’imporre la propria presenza a chi non ti desidera. Su quanto egoistico sia. Su quanto, anche, sia cieco sperare che chi non ascolta i tuoi “no” e non rispetta i tuoi boundaries, i tuoi limiti, lo faccia quando vede quanto male ti sta facendo. Anche quando quel male lo incarni. E inizi a fartelo da solo. Chi non si sa amare sta in relazione con chi racconta l’odio come amore. Nessuno dei due è meno tossico - ciò non toglie che il carnefice tra i due abbia una faccia e un nome, e che dall’altra parte ci sia qualcuno che non si sa difendere non è in alcun modo un alibi.

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Barry Keoghan in "Gli spiriti dell'isola"

Il film (9 candidature ai Premi Oscar 2023, 8 ai Golden Globe) ha anche il merito di dare un ruolo a un attore di cui parleremo ancora: il giovane (è del 1992) e mastodontico Barry Keoghan
.L’accento irlandese, la musica, la fotografia da dipinto di Waterhouse per dei paesaggi in cui la nebbia è una dea a parte - da compiacere, perché ti nasconda le cose sbagliate e ti sveli quelle giuste - nessuno tutto pulito, nessuno tutto sporco, una storia col finale aperto come nel miglior Martin McDonagh. Tutto questo è Gli spiriti dell’isola, una storia di Rorschach, come le macchie. Finisce, e ti svegli dal sogno. Come coi sogni, sei tu che gli dai il senso che ha per la tua vita. Quello che solo la grande arte sa fare.

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Il divano di spade 04.02.2023, 19:00

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