È recentemente uscito su Netflix il documentario Pamela, su (e con) Pamela Anderson. L’attesa era grande, più che altro perché era noto che sarebbe stata una risposta alla serie Pam e Tommy uscita l’annoscorso su Disney+.
In breve: in quel caso si sollevò un’importante questione di consenso. La serie parlava della vicenda di Pamela Anderson e Tommy Lee, che negli anni Novanta furono la prima coppia di famosi a subire una divulgazione non voluta di materiale intimo. In sostanza, un video porno. Agli albori di internet. La serie tv dell’anno scorso è stata un’ulteriore violazione di consenso, visto che Pamela Anderson non era d’accordo con la sua realizzazione. Pamela nasce in risposta a questo. E riesce a essere molto altro.
Fin da subito è un ottimo esempio della differenza tra essere oggetto e soggetto di una narrazione. E lo capiamo perfino dalla fisicità di Pamela: appare struccata e, certo, bellissima, naturale nel suo non essere naturale. La telecamera non è mai impietosa, ma neanche censurante, verso i suoi cinquant’anni, e le unghie finte, e le labbra ritoccate, i capelli tinti. Pamela Anderson torna, forse come non è mai stata rappresentata prima, una persona. Un essere umano e non la caricatura di se stessa.
Succede, poi, che la sua sia una storia molto più interessante di quella del famoso video con Tommy Lee. Mamma cameriera, papà bevitore e ludopatico, “ognuno aveva una storia da raccontare su mio padre”, ci dice lei. Parla senza mai scadere nel vittimismo di liti violente di questa coppia che si era messa insieme presto - lui 19 anni, lei 17 -, e del loro litigare e poi baciarsi. “Ma l’energia era la stessa”. Insomma, un amore tossico come tanti.
La babysitter la molestava pesantemente. Il racconto di Pamela Anderson che proteggeva il fratellino rende la storia molto moderna: lei non è vittima e non è carnefice; più semplicemente, è un po’ di tutt’e due. Di nuovo, persona. Uno dei punti più alti del documentario è quello in cui racconta di aver provato a uccidere questa babysitter con una penna a forma di bastoncino di zucchero. "Volevo che morisse", dice candidamente. "E il giorno dopo morì in un incidente stradale".
La bimba-Pamela si è convinta dopo la morte della sua tata abusante di avere poteri magici.
Poiché poi ci sono predatori molto bravi ad annusare l’odore del sangue già sparso, a dodici anni è stata violentata da un venticinquenne.
Insomma: il suo esordio alla vita non è stato dei più felici. Forse per questo il seguito le è sembrato così salvifico, qualcosa a cui attaccarsi senza contestare il ruolo che via via le appiccicavano addosso. E noi che abbiamo sempre pensato che avesse una buona stella.
Sono tante le cose degne di nota nel documentario. Per esempio il suo racconto di quando è stata presa, lei che non era nessuno e veniva da una famiglia povera, nel maniero di Playboy. Le sembrava una regia, e il trattamento oggettificante e a tratti disumano che ci racconta Gloria Steinem nella famosa inchiesta uscita su Ms. nel 1972 (si era infiltrata e aveva scoperto, tra le altre cose, un assurdo sistema di sorveglianza verso le “conigliette”) è lontano, o per lo meno si capisce fino a che punto lei invece lo abbia accettato. Succede, talvolta, di essere grate verso chi ci ha salvate da famiglie che ci sembravano - e forse erano - dei mali maggiori. Non ci si libera, si scelgono solo gabbie più comode.
La Pamela Anderson che emerge da questo documentario sorprende: è ironica, e soprattutto autoironica. È una che si è ripartorita, a un certo punto della sua vita, e precisamente quando si è ribattezzata bionda. È anche una che ha delle malinconie, di cui tuttavia ha pudore, come quando dice cose del tipo: "Sono come un salmone, che depone le uova e torna a casa per morire" e poi ride con quella risata che sembra anche un po’ un singhiozzo, e ci (e si) rassicura: "No, kidding". Sto scherzando.
La storia con Tommy Lee è molto meno scontata di quanto non sembri nella serie tv, che rappresenta loro due come dei ricchi sopra le righe, e i ladri e divulgatori del loro materiale intimo come dei moderni Robin Hood, vendicatori della loro classe sociale. Cosa che non erano.
Lei racconta e basta, non giudica e non punta il dito. È chi guarda il documentario che, se ha gli strumenti giusti, può ravvisare facilmente nel corteggiamento di Tommy Lee qualcosa che gli psicologi chiamano love bombing, e anche dei più estremi. Fa cose che sarebbero perfino denunciabili per stalking. Se non fosse che lei, poi, cede. E dopo dell’ecstasy nello champagne, alla loro prima uscita dice di sì alla proposta che lui le fa di sposarlo.
Il documentario fa interrogare di continuo sulla differenza tra scelta e violenza, e su quella linea d’ombra che rende il libero arbitrio quantomeno condizionato, dunque non poi così libero.
Si parla di che voglia dire fare l’attrice in un determinato contesto, tra diciotto ore di lavoro al giorno e corsi di kickboxing da incinta, a cui segue un aborto spontaneo. Si parla della scelta-non-scelta, una volta rimasta incinta di nuovo e senza precedenti giuridici, di accettare un patteggiamento nella causa per quello che oggi chiamano, con una scelta terminologica che non convince tutti, revenge porn.
Il documentario è intitolato Pamela e non Pam e Tommy perché non è ipocrita: sappiamo tutti che la gente ha pagato per vedere lei a letto con qualcuno, più che Tommy Lee. E che i danni di immagine e carriera che ha ricevuto Anderson non sono paragonabili alle pacche sulle spalle di cui ha beneficiato lui.
È una visione interessante anche perché a tratti sembra un manuale di psicologia applicata: palese, per esempio, il fatto che lei abbia trovato (e scelto) nella vita uomini fotocopia del papà, e cioè alcolizzati e col vizio del gioco. Ha solo fatto un upgrade rispetto a sua madre, visto che questi sono famosi. A un certo punto si mette insieme a un giocatore professionista, uno che la ludopatia la fa direttamente in televisione: Dostoevskij si sarebbe leccato i baffi per un personaggio del genere.
Funziona tutto talmente bene che viene un dubbio.
Arriva, precisamente, alla fine dello show. E cioè subito dopo la messa in scena del debutto di Pamela Anderson a Broadway: lei di profilo che sembra Marilyn, e che poi le viene paragonata esplicitamente. Lei che a cantare, ballare e recitare a differenza di quel che si diceva negli anni Novanta in realtà è brava, e appare quasi gloriosa nel suo riprendersi le parole per raccontare, lei da sola stavolta, la sua vita. Da oggetto a soggetto, si diceva.
Eppure.
Eppure dopo questa scena di rivincita costruita ad hoc ce n’è un’altra. L’avevano già introdotto, questo personaggio, e a un occhio non attento poteva perfino essere sembrato secondario. Eppure, ancora, ci erano stati forniti senza che fosse necessario troppi dettagli a riguardo: il biondo scandinavo, la tinta che ha trasformato Pamela dalla bambina sfortunata ma abbastanza pop da non definirsi mai solo come vittima, e abbastanza da serie tv da pugnalare la babysitter con una penna di finto zucchero, nella Pamela Anderson di Playboy, prima, di Baywatch, dopo.
Viene immortalato in primo piano, e c’è tutto: la marca, il numero preciso. Il personaggio co-protagonista del documentario è una boccetta di tinta bionda Garnier di cui si legge ogni dettaglio, in un frame che è capace di risvegliarti. E di palesarti che era tutto un sogno, l’ennesimo sogno commerciale da cui il capitalismo esce unico vincitore. Capace, in effetti, di diversificare il prodotto. Capace sia di raccontarti la stessa storia dal punto di vista più maschilista (Pam e Tommy), sia di rispondere su un’altra piattaforma con quello femminista, ma in chiave liberal.
A noi restano un paio di certezze: la prima è che la rivoluzione, se ci sarà, non avverrà su palchi e piattaforme di streaming, non sarà gentilmente sponsored by. La seconda, ben meno aleatoria, è che dopo questo documentario le vendite del “biondo scandinavo” di Garnier saranno di certo salite alle stelle.