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Here: il nuovo film di Robert Zemeckis è una buona occasione per riscoprire il capolavoro a fumetti di Richard McGuire

  • Ieri, 11:42
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Di: Michele Serra 

New York, 1989. Il fumettista Art Spiegelman sta lavorando da quindici anni a quello che diventerà il suo capolavoro, nonché il graphic novel fondamentale del secolo scorso: “Maus”. Lo pubblica un capitolo alla volta sulla rivista Raw, da lui curata e stampata in un appartamento di Manhattan insieme alla moglie Françoise Mouly. Lei diventerà art director del New Yorker, lui vincerà un Pulitzer, giusto per dire che sono destinati a un certo successo – anche se ancora non lo sanno. In compenso sanno di essere sulla buona strada: hanno appena stretto un accordo con Penguin Books, per portare la loro rivista dal do-it-yourself all’editoria ufficiale. Proprio sul primo numero della seconda serie di Raw, che segna quel passaggio, appare una storia intitolata semplicemente “Here”, “Qui”. Scrive e disegna Richard McGuire, ragazzone del New Jersey poco più che trentenne che fa il musicista e l’illustratore, ed è parte del giro della cosiddetta street art dell’epoca, che ha appena perso il suo volto più noto, Jean-Michel Basquiat. Fino a quel momento Richard ha avuto più soddisfazioni dalla sua attività di bassista nella band Liquid Liquid, che da quella di cartoonist: la linea di basso che ha composto per il singolo “Cavern” è stata campionata da Melle Mel, pioniere dell’hip-hop newyorchese che ne ha tirato fuori una hit underground, “White lines (Don’t do it)” (parla esattamente di quello che si capisce dal titolo, sì). Richard non ci ha guadagnato niente, beninteso, e i Liquid Liquid si sono sciolti. Meglio provare la strada del disegno. E così, ecco “Qui” (ah ah). Il “Qui” del 1989.

“Qui” è un racconto di sei pagine, apparentemente molto più semplice rispetto alle immagini sovraccariche di linee e/o colori che occupano spesso le pagine di Raw: trentasei vignette tutte della stessa dimensione, in bianco e nero. L’inquadratura è fissa, la scena piuttosto anonima: l’angolo di un salotto, all’interno di una qualsiasi casa americana. Che però a poco a poco si popola di personaggi, ma soprattutto inizia a viaggiare nel tempo. Mica nel senso della fantascienza, eh, niente macchine. Richard McGuire semplicemente mostra al lettore passato e futuro di quell’angolo, una serie di momenti lontani nella storia anche migliaia di anni, ma accomunati dal loro svolgersi nello stesso punto dello spazio. Momenti di vita, persone, animali, eventi piccoli e grandi, feste in casa, compleanni, morti, dinosauri, il brodo primordiale. Frammenti di uno sguardo onnisciente, visualizzati come quadretti che si aprono uno sopra l’altro sulle vignette, come le finestre di Windows, e che tutti insieme sembrano comporre una sequenza organica. Forse.

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[IMMAGINE HERE 1989]

Il paragone con il sistema operativo dei personal computer non è casuale: quando tempo fa ho intervistato McGuire, è stato lui stesso a dirmi che l’idea per il fumetto e l’ispirazione tecnologica sono arrivate insieme. Trascrivo da quel dialogo: «Avevo appena traslocato, e mentre portavo gli scatoloni nella casa nuova mi sono ritrovato spesso a pensare a chi l’aveva abitata prima di me. Un giorno sono andato a una lezione tenuta da Art Spiegelman, e sono tornato a casa con l’idea che i fumetti fossero come diagrammi, utili però a raccontare una storia. Nel mio appartamento riflettevo sul come raccontare la storia della gente che c’era prima di me, e quella che sarebbe stata lì dopo di me. Di fronte a me vedevo l’angolo del salotto, e ho pensato al modo in cui quell’angolo divideva il muro in due, ho pensato che era come un effetto split-screen: a sinistra il passato, a destra il futuro. Partendo da quell’idea ho disegnato una strip e l’ho mandata a Spiegelman, perché mi sarebbe piaciuto disegnare su “Raw”, anche se non credevo veramente che sarebbe stato possibile... Un paio di giorni dopo è arrivato un amico a casa mia che aveva appena comprato un PC con Windows – grande novità del momento – e ha iniziato a descrivermi le meraviglie di questo programma, con le finestre che si aprivano una sopra l’altra: lì mi si è accesa la classica lampadina sopra la testa. Ma ci sono altri motivi: ad esempio, ricordo che mio padre faceva a me e ai miei fratelli una foto sempre uguale, ogni anno, in cui tutto era identico tranne noi, che crescevamo. Quelle fotografie sono state un altro seme di quella storia».
Insomma, “Qui” aveva messo insieme pezzi del suo tempo, per costruire una storia brevissima, eppure capace di fulminare una generazione di artisti: tipo Chris Ware, destinato a diventare il più importante fumettista americano del quarto di secolo successivo, che scrive di getto una lettera di congratulazioni a Richard. Però, la storia di “Qui” non procede: rimane un lampo nella cultura occidentale degli anni Ottanta, mentre il suo autore continua la sua attività di artista e illustratore, ma con poco fumetto.
Fino al 1999, anno in cui Richard riprende a lavorare su quel fumetto il cui protagonista è semplicemente il tempo. E siccome si parla di tempo, ci mette quindici anni a completare la nuova versione di Qui: non più un racconto breve, ma un romanzo a fumetti che conta trecento e rotte pagine, e che vede la luce nel 2014.
“Qui” è diventato un romanzo a fumetti, formato che ha conquistato ormai il suo posto nelle librerie, ed è diventato incredibilmente denso. La prima volta che lo sfogli (l’edizione italiana è Rizzoli Lizard), l’impressione è che sia enorme. Un’ampiezza narrativa che può esistere, su carta, solo a fumetti, perché senza l’immagine sarebbe impossibile fornire al lettore un appiglio, in questo vortice di flashback e flash forward. L’unico altro mezzo che potrebbe raccontare una storia del genere è il cinema, e infatti. Ma su questo torno tra qualche riga.

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“Qui” è un romanzo a fumetti in cui il ritmo è fondamentale, con momenti più larghi e sequenze invece incalzanti. Il racconto è fatto di schegge dentro le quali si riflette un universo di relazioni: ogni dialogo in qualche modo ne riflette un altro, così come le immagini sembrano entrare in risonanza. Non sono sempre associazioni dirette, e molto dipende dal lettore.
“Qui” è un’opera prima di tutto concettuale, che parte da una regola costrittiva – una rigidissima unità di luogo – che sarebbe piaciuta a Queneau e agli scrittori dell’Officina della Letteratura Potenziale, e che richiede a chi legge uno sforzo interpretativo continuo, eppure nasconde tra le sue pagine momenti incredibilmente emozionanti. Forse perché c’è dentro molta roba personale: McGuire ha perso i genitori e la sorella prima di iniziare l’ultima fase di ricerca per il libro, che inevitabilmente finisce per raccontare l’impermanenza, la fragilità dell’uomo.
L’autore ha ammesso che molte delle immagini dentro “Qui” sono pezzi della sua vita e di quella della sua famiglia, che diventano universali, spesso per la loro banalità. Le foto di famiglia si assomigliano tutte, no? E per questo motivo “Qui” appare anche una protesta contro la nostra idea di unicità. Ce l’ha insegnato Hollywood, ce lo ripete la comunicazione commerciale a ogni occasione: sei unico, sii te stesso, be different. Ma i nostri Levi’s e le nostre Adidas (anche se si tratta di limited edition), le nostre storie d’amore struggenti, i nostri successi e i nostri lutti sono in fondo molto simili.

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Leggendo “Qui” è inevitabile pensare a Kurt Vonnegut Jr. e al suo “Mattatoio n. 5”: agli alieni tralfamadoriani inventati dallo scrittore, esseri pentadimensionali che hanno la capacità di comprendere la vera natura del tempo e vedono ogni istante come eterno. Noialtri non ne siamo capaci: possiamo solo provare a mettere le cose in prospettiva, a unire i pezzi del puzzle, e fallire. Come ha fatto Richard McGuire con “Qui”. In fondo, ogni autore di fumetti, di mestiere, lotta con la percezione e la rappresentazione del tempo, al centro di quella che qualcuno chiama con magniloquenza “arte sequenziale”.
Rimane, per citare ancora McGuire, la sensazione che “Qui” riesca a cogliere una verità: gli umani non pensano in maniera lineare. «In ogni momento tu stai anticipando il futuro nella tua testa, e allo stesso tempo cercando di ricordare i pensieri che hai appena avuto. E puoi pensare che non avresti dovuto dire quello che hai appena detto, e poi un piccolo particolare ti può ricordare un momento della tua infanzia che avevi dimenticato da anni... non c’è davvero un modo di controllare la nostra percezione del mondo, di renderla più unitaria. Non abbiamo in mano altro che frammenti».

Detto che “Qui” è un capolavoro a fumetti, arriviamo alla versione cinematografica appena arrivata nelle sale, che appare oggetto assai più misterioso.
Ha raccolto recensioni non esattamente lusinghiere soprattutto nel mondo anglosassone, che hanno considerato la storia banale, i personaggi stereotipati e il racconto involontariamente comico. Tutto sommato, si potrebbe dire che tutte e tre le critiche siano giustificate. Eppure, il punto è proprio questo: le vite che vengono raccontate non sono granché straordinarie, i personaggi rappresentano cliché ormai affermati delle diverse generazioni. E se l’immedesimazione a tratti è difficile, forse è proprio perché l’eccessivo calore del medium cinematografico rende meno universali i protagonisti. Il fumetto originale di McGuire è infatti disegnato con tratto essenziale, poche linee bastano a dare forma a volti e corpi che potrebbero essere di (quasi) chiunque: nel cinema, questo è quasi impossibile, soprattutto se conti su volti straconosciuti come quelli di Tom Hanks e Robin Wright, per quanto modificati grazie a software che ringiovaniscono o invecchiano il loro aspetto a seconda del momento della storia in cui si trovano i loro personaggi.
L’utilizzo di simili effetti speciali digitali all’avanguardia è in linea con la fama di instancabile sperimentatore del regista Robert Zemeckis, che nell’ultimo quarto di secolo ha fatto uso intensivo della CGI, con diversi lungometraggi motioncapturati e una profonda infatuazione per il 3D. E si potrebbe dire che Here rappresenti la summa del suo cinema: ci sono le tecnologie digitali come in Beowulf, le riflessioni sul tempo come in Ritorno al Futuro, il tentativo di realizzare l’equivalente filmico di un Grande Romanzo Americano come in Forrest Gump.
Abbiamo visto negli ultimi anni diversi tentativi di mettere in atto, al cinema, rimediazioni di altri linguaggi estetici: Here è senza dubbio tra i più riusciti, insieme a Sin City di Robert Rodriguez. Come quest’ultimo, dimostra ancora una volta che i film che cercano di imitare fumetti o videogiochi non possono che essere imperfetti. Eppure rimane un esperimento affascinante.

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