Il 27 marzo 1329, in Avignone, papa Giovanni XXII promulgò la Bolla In agro dominico, con la quale si condannavano come eretiche o sospette di eresia ventisei proposizioni tratte dalle opere di «un certo Eckhart, dei paesi tedeschi e, secondo quanto si dice, Dottore e Professore di Sacra Scrittura, dell’ Ordine dei Predicatori», che «ha voluto saperne più del necessario e...sedotto da quel padre della menzogna, che spesso assume le forme dell’angelo della luce...ha fatto crescere nel campo della Chiesa spine e zizzania….insegnando dottrine che oscurano la vera fede...ecc.».
La Bolla si conclude peraltro dicendo che «il sunnominato Eckhart, confessando alla fine della sua vita la fede cattolica... sconfessò tutto quello che, da lui predicato o scritto, o insegnato nelle scuole, potesse indurre nell’animo dei fedeli un senso ereticale, o erroneo e contrario alla vera fede… sottomettendo se stesso e tutti i suoi scritti e tutte le sue parole alla decisione Nostra e della Sede Apostolica».
Si chiudeva così, dopo la morte dell’imputato, un processo clamoroso, cui era stato sottoposto uno dei massimi esponenti dell’Ordine Domenicano, magister di Teologia a Parigi, così famoso che quel titolo di magister gli è rimasto quasi come nome proprio: Meister. Sorvoliamo sul fatto che il papa avignonese che emise la Bolla era uno di quei “caorsini” – Jacques Duèse era appunto nativo di Cahors, nella Francia meridionale – contro cui Dante si scaglia, mettendo in bocca a san Pietro parole di fuoco a loro rivolte (cfr. Paradiso, XXVII, 58-59, e XVIII, 130-136); sta di fatto che la condanna ebbe l’effetto di far sparire il magistero eckhartiano dalla cultura religiosa ufficiale per secoli. In realtà però non del tutto, in quanto alcune delle principali idee del Meister continuarono a circolare, più o meno sotterraneamente, sia nei conventi della valle del Reno, dall’attuale Svizzera all’attuale Olanda, nei quali si era svolta la sua predicazione, sia anche tra i laici delle città, come Strasburgo o Colonia, ove aveva a lungo vissuto e insegnato. Così, ad esempio, il suo confratello e discepolo strasburghese Johannes Tauler (Giovanni Taulero), difendendo il pensiero del maestro, che «parlava dal punto di vista dell’eternità, ma veniva (mal) compreso da quello del tempo», predicò sermoni in puro spirito eckhartiano, che circolarono, prima manoscritti e poi a stampa, spargendo così semi che fruttificarono nei secoli seguenti, come ad esempio nei bellissimi versi del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (1624-1677). Con l’età moderna, poi, il romanticismo e l’idealismo tedesco riscoprirono quei tesori della loro lingua e cultura rimasti a lungo semisepolti, tanto che furono riportate per la prima volta alla luce intere opere di Eckhart, come appunto il Commento al vangelo di Giovanni, che è la più rilevante di quelle sue in latino, destinate all’università. Molto lenta e faticosa è comunque stata la loro diffusione, perché da un lato la “mistica” era invisa alla cultura laica – positivista, marxista ecc.- e, dall’altro, Eckhart era pur sempre un autore sospetto, condannato per eresia, che proprio nella Expositio sancti evangelii secundum Johannem presenta alcune delle sue tesi incriminate.
In effetti l’opera (che lo scrivente tradusse in italiano già nel 1992, e poi ripresentò in nuova edizione, con testo a fronte, nel 2017) forse più di ogni altra espone il pensiero eckhartiano, anche perché il Quarto Vangelo è quello che afferma la realtà di Dio come spirito, che non si adora nei templi, ma solo in spirito e verità, ed è pure l’unico a proclamare la divinità del Cristo. Proprio nelle proposizioni censurate ad Avignone leggiamo, infatti, che tutto quello che la sacra Scrittura dice di Cristo si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino, dal momento che l’uomo buono, l’uomo nobile, è l’unigenito Figlio di Dio, generato dal Padre dall’eternità, e non ha niente di meno di quello che il Padre ha dato al Figlio suo unigenito. Alla natura spirituale di Dio corrisponde la natura spirituale dell’uomo, che è unus spiritus, un solo spirito, con quello di Dio, ed ha la stessa natura del Cristo. Non v’è dubbio che queste affermazioni suonassero scandalose alla Chiesa avignonese, tanto più che sono connesse con l’etica dell’ “uomo nobile”, ovvero dell’uomo completamente distaccato, libero anche da ogni legame di tipo religioso. Ben nota è infatti la preghiera di Eckhart: «Prego Dio che mi liberi di Dio» - davvero paradossale, se non si comprende che si sta dicendo che l’anima deve andare oltre ogni immagine esteriore di Dio, sempre condizionata dai luoghi, dai tempi, dalle circostanze che noi chiameremmo storico-sociali. L’invito davvero fondamentale del meister è infatti quello a trovare, al «fondo dell’anima», la nostra essenza spirituale, ben distinta da quella psicologica, mutevole ed accidentale.
Appare perciò davvero come segno tangibile di un cambiamento dei tempi il fatto che la Biennale di Venezia presenti, in ben due tornate - 5-9 ed 11-15 marzo - un Progetto Speciale dell’ Archivio Storico dedicato all’ eckhartiana Expositio sancti evangelii secundum Johannem. L’evento si svolge nella splendida sede del Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco, atrio del monumentale complesso cinquecentesco, conosciuto oggi come Ospedale Civile dei SS. Giovanni e Paolo. Noti attori recitano brani del testo, parte in italiano ma parte anche in latino, accompagnati dai canti gregoriani del Coro della Cappella Marciana, mentre filosofi di fama europea, come il veneziano Massimo Cacciari e il tedesco Peter Sloterdjik, tengono conferenze. Questo indica, ovviamente, che la cultura diciamo così ufficiale riconosce il valore filosofico e teologico di un personaggio a lungo dimenticato. Ancor più significativa è però la partecipazione non solo del Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, ma anche del cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero della Cultura e dell’ Educazione della Santa Sede, perché ciò significa che la Chiesa cattolica ammette l’ errore compiuto sette secoli fa e restituisce ad Eckhart quel ruolo che i contemporanei gli avevano assegnato, chiamandolo appunto meister, e non solo Lese-meister, ma anche Lebe-meister, ovvero maestro non tanto di dottrina, quanto e soprattutto di vita. Qualcosa di cui il nostro tempo ha un grande bisogno.

Preghiere invisibili
RSI Cultura 28.02.2025, 15:30
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