Ogni tempo ha un atteggiamento ottico che gli è proprio. Il nostro tempo: quello del film, della pubblicità luminosa, della simultaneità degli avvenimenti percepibili coi sensi.
Làszló Moholy-Nagy
’artista ungherese, nato a Budapest
il 20 luglio 1895, dove conseguì una laurea in legge, si spostò dapprima a Vienna, di lì a Berlino e a Parigi: i grandi centri dell’arte nei primi del Novecento. Collaborò con importanti riviste d’arte, si cimentò in fotogrammi Dada a Berlino ed espose dipinti in diverse gallerie. Ed è in una di queste occasioni che l’architetto Walter Gropius, fondatore e allora direttore del Bauhaus, rimase piacevolmente colpito dalle opere di Moholy-Nagy, al punto da invitarlo a collaborare nella sua scuola a Weimar.
Era il 1923. Periodo fiorente per la produzione artistica di Moholy-Nagy, la cui impronta più significativa fu nella grafica, in particolar modo nel design editoriale. Curando e progettando insieme a Gropius una serie di libri editi dalla scuola, nacquero i Bauhausbücher; testi dalle impaginazioni avanguardiste, straordinarie se pensiamo al fatto che in quegli anni – fino al periodo nazista – i testi in lingua tedesca venivano pubblicati in caratteri gotici.
Non meno rilevante fu il suo contributo alla fotografia, e questo fu evidente soprattutto dopo la pubblicazione dell’ottavo volume dei Bauhausbücher: Pittura Fotografia Film (1925). Moholy-Nagy non solo diventò il principale rappresentate della fotografia all’interno del Bauhaus, ma con questo libro si presentò come uno degli autori che inaugurarono gli studi di cultura visuale.
Pittura Fotografia Film è la prima compiuta teorizzazione della fotografia moderna, ed è anche una riflessione che anticipa Benjamin di un decennio sullo statuto dell’arte nell’epoca della riproduzione tecnica di suoni e immagini. Parla della possibilità di costruirsi una «pinacoteca domestica», un archivio personale di immagini di oggetti o luoghi lontani, ora a portata d’occhio. La percezione del mondo è cambiata, e Moholy-Nagy è una di quelle figure che se ne accorse.
L’avvento della fotografia e del cinema ha rimosso – in un certo senso – l’immaginario plurisecolare che la pittura aveva impresso nella nostra visione: questo è chiaro se guardiamo i primi ritratti e paesaggi fotografici, impostati secondo le regole visive della pittura ottocentesca. «Cento anni di fotografia e due decenni di film ci hanno incredibilmente arricchiti sotto questo profilo. Si può dire che noi vediamo il mondo con tutt’altri occhi. Nonostante ciò, finora il risultato complessivo non va molto più in là di una produzione visiva enciclopedica. Questo non ci basta. Noi vogliamo produrre secondo un piano, in quanto per la vita è importante la creazione di nuove relazioni» (Làszló Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film, Einaudi 2010).
La fotografia per Moholy-Nagy si pone come ampliamento della realtà, fa conoscere il mondo in modo diverso grazie alla capacità di mostrarlo in modi che l’occhio umano non poteva vedere, quello che poi Benjamin chiamerà «inconscio ottico»: prospettive insolite, forti contrasti di luce, ingrandimenti, dettagli di oggetti in movimento, radiografie.
E dato che relazionarsi al sensibile è la trama stessa della nostra conoscenza, quanto più questa trama è fitta e ampia tanto più le nostre possibilità conoscitive ed espressive si moltiplicano. Egli stesso operava per infittire le relazioni tra i fili che tessono la realtà: questo attraverso la sperimentazione di diversi media nel rapporto tra arte e tecnologia e la produzione di immagini inedite, le quali contrapponeva alle riproduzioni della realtà di tipo canonico e tradizionale.
«Non contro, ma con la tecnica», diceva. Lo spirito ottimista di Moholy-Nagy nell’uso estetico e umanistico della tecnologia lo portò ad avere importanti intuizioni sugli sviluppi dei media con cui lavorava: primo fra tutti un futuro caratterizzato dalla proliferazione delle immagini e dal primato della visione sugli altri sensi: «domani si potrà guardare nel cuore del prossimo, essere ovunque e nondimeno stare soli; si stampano libri, giornali, riviste illustrate a milioni. L’inequivocabilità del reale, del vero nella quotidianità è avvertita da tutti i ceti. Lentamente si impone l’igiene dell’ottico, la salute del visivo.»
Nell’ampliamento dell’orizzonte percettivo dell’individuo moderno la tecnica aveva un ruolo fondamentale, ma allo stesso tempo rappresentava un pericolo. Ma nonostante l’artista fosse totalmente calato nella «visuelle Kultur» e nella «optische Kultur» – per usare dei suoi termini – non intravide, come fecero più tardi Benjamin e Adorno maggiormente, l’uso della fotografia e del cinema che ne avrebbero fatto le ideologie totalitarie per far presa sulle masse – tecniche e strategie tuttora vive e vegete.
Un paio di decenni dopo registi e teorici come Jean Epstein arrivarono a considerare il cinema come uno strumento capace di modificare profondamente la cultura nel suo insieme: la visione della realtà, il «clima mentale di un’epoca». Sulla scia di Benjamin il regista francese ci mostra come la comparsa di ogni nuovo strumento riconfiguri lo spirito che l’ha concepito e creato: «il pubblico disimpara a pensare come legge o scrive, e si abitua a pensare come vede».
Era l’emergere di un’epoca nella quale l’ambiente umano si sarebbe trasformato sempre più velocemente. Le grandi città si fecero elettriche e ad accompagnare il mutare delle tecnologie e dei media vi era il mutare della percezione e dell’esperienza. Questo su insegnamento di Benjamin, il quale partiva da un presupposto fondamentale: quello secondo cui visione, percezione ed esperienza sono sempre mediate e articolate da una serie di «apparecchi» tecnico-materiali che si trasformano storicamente e che riorganizzano continuamente il «Medium della percezione»: l’ambiente. Questo fu più chiaro nella modernità, caratterizzata da un’«innervazione» di apparecchi tecnici che agiscono sul sensorio umano producendo un choc percettivo: la macchina da scrivere, il microfono, la cinepresa, il telefono, la radio, il cronometro; tutto nel ritmo delle città che illuminavano la notte alla velocità del lampione, della radio e dell’automobile. Elementi che poi sarebbero andati a intensificarsi e moltiplicarsi nei decenni successivi. Perciò la reazione di Moholy-Nagy fu quella di considerare tutte le forme della Gestaltung la risposta adeguata ai problemi percettivi posti dalla modernità.
È chiaro come la consapevolezza del fatto che ogni medium interagisce con le facoltà sensibili dell’individuo alterandone il panorama percettivo ed esperienziale, spinse l’artista a ritenere che l’arte – intesa come ogni forma di Gestaltung, quindi composizione e configurazione della materia e dello spazio (luci, forme, colori, superfici, volumi, suoni, ambienti, atmosfere) – sia un assoluto strumento di educazione estetica, nel senso etimologico del termine: un’educazione all’uso dei sensi, a un loro ampliamento e affinamento, affinché l’individuo moderno possa rapportarsi in modo più consapevole ed efficace col mondo che lo circonda. In Moholy-Nagy l’arte aveva il ruolo di insegnare all’uomo moderno come partecipare in modo critico e attivo alle vaste trasformazioni del visibile che le nuove tecnologie avevano innescato. E l’uomo doveva impadronirsi di quelle tecniche anziché esserne succube. Il compito dell’arte, nel suo incontro produttivo con la tecnologia, doveva essere proprio quello di contrastare l’impoverimento sensoriale e spirituale dell’uomo potenziando le sue relazioni col mondo circostante, arricchendo così la sua esistenza.