Quegli è signore della terra Che sonda le sue profondità, E ogni cura Nel suo grembo dimentica...
Jünger, in una viva conversazione sulle pietre, giunse alla conclusione che «il più delle volte le pietre piccole provengono dalle grandi, qualche volta è anche il contrario» (Ernst Jünger, L’albero, Herrenhaus 2003). Lo scrittore tedesco avrebbe ricordato quel discorso, come egli dice, ogni qualvolta avrebbe percorso la strada da Lugano a Milano, osservando le pareti rocciose che scorrono fuori dai finestrini del treno. Il ciottolo che raccogliamo in riva al lago viene forse dalla vetta di una montagna: ogni ciottolo era parte di una roccia madre, franato poi nelle acque e qui cullato e levigato. Allo stesso modo, in cima a un monte, su una roccia, troviamo impronte di animali marini poste come sigilli del tempo e di straordinarie forze telluriche. La roccia che il tempo sgretola, il tempo la ricompone: dal monte alla sabbia, dalla sabbia al monte. «Metamorfosi di cosmiche macinature... Qui una parete crolla, là si innalza. Costante nell’essenza, muta la sua forma. Le forme sono interpretazioni. La pietra nella sua essenza, la pietra dei saggi, rimane intatta». La pietra è testimone di un ritmo ontico che oscilla fra distruzione ed concrezione; tutti coloro che si sono occupati della storia della Terra – e non solo loro – ne sono rimasti incantati.
La pietra è la materia primigenia con la quale le antiche forze nettuniche e quelle vulcaniche si contendono il dominio della Terra. La pietra rimane indisturbata, sempre dormiente e indifferente alle sorti del mondo. Come dice Hugh MacDiarmid, «ci sono un sacco di edifici in rovina in tutto il mondo, ma non pietre in rovina». La pietra è la prima materia della Terra, è la mater che regge il nostro mondo. Così ci pervengono le dee madri del Neolitico. La caverna, l’antro roccioso, è con tutta probabilità il primo grembo nel quale ci riparammo e gioimmo della bellezza del mondo lasciando sacre figure sulle pareti di quella stabile dimora.
La lavorazione della pietra risale ai primordi dell’umanità. Avvolte in cortecce, le pietre sacre venivano lasciate nelle caverne come depositarie della potenza divina. Certi indù si trasmettevano di padre in figlio delle pietre dotate di poteri magici. Alcuni aborigeni australiani credevano che lo spirito dei loro antenati continuasse a vivere nelle pietre. Qualcosa di assai simile accadeva presso gli antichi Germani, secondo i quali gli spiriti dei morti vivevano nelle pietre sepolcrali.
Come la stella, la lapide è segno del morto proprio perché si pone come elemento non caduco. Non solo feticcio, amuleto o talismano, la pietra viene da sempre usata per erigere monumenti. La pietra è durata, e quindi memoria. Il suo carattere temporale e il suo fascino muto la rendono archetipo perenne; non è un caso se le sette meraviglie del mondo antico e moderno sono ed erano di pietra.
Le meraviglie del mondo antico e moderno
Giacobbe lasciò una pietra nel luogo in cui ebbe il celebre sogno per non dimenticare la parola di Dio. Poggiare una pietra ha una pregnanza di senso che supera la manciata di parole, chi posa una pietra intuisce che questo gesto ha un potere fondante. Non c’è da stupirsi se in molti culti ci si serva della pietra per indicare Dio. Quindi come dimenticare la reliquia per eccellenza del mondo islamico verso la quale tutti i fedeli si volgono in preghiera: la Caaba, la pietra nera della Mecca. Da millenni la pietra contrassegna luoghi sacri e di culto, come infiniti templi, come il Muro del Pianto, come la pietra sacra nel Tempio di Gerusalemme, la quale era posta nel centro della città (nel centro di quella città che era considerata il centro del mondo).
Durante il Medioevo gli alchimisti cercavano di carpire i segreti della materia per scorgervi la presenza di Dio, e questo segreto lo credevano racchiuso nella celebre pietra filosofale. Ma alcuni alchimisti credevano invece che questa pietra potesse emergere solo nell’anima dell’uomo: «voi ne siete il minerale e in voi la si può trovare. Se ve ne renderete conto, sentirete vivere in voi l’amore della pietra» – dice un alchimista arabo. Così alcuni alchimisti ritenevano che la lapis fosse simbolo di un’esperienza che non può andar perduta, poiché paragonabile all’esperienza mistica di Dio. La pietra garantisce dunque un destino spirituale e materiale: dal masso di Sisifo alla spada nella roccia, dallo sguardo di Medusa alla statua del Budda.
In Jung le pietre e i cristalli sono spesso simboli del sé (il punto che, nel processo di individuazione, rappresenta il compimento della psiche e della vita individuale): le pietre hanno un preciso carattere di compiutezza e di durata. Pietre e cristalli «sono simboli appropriati del sé, a causa della “giustezza” della loro natura. Sono molti coloro che non sanno trattenersi dal raccogliere pietre che abbiano una forma o un colore anche appena fuori dal normale, senza sapere perché lo fanno. È come se in quelle pietre si racchiudesse un mistero vivente che li affascina. Gli uomini hanno raccolto e collezionato pietre fin dai primordi, e hanno supposto che certune contenessero la forza vitale, con tutto il suo mistero» (C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Raffaello Cortina 2016).
In tedesco si dice steinreich di chi è estremamente ricco. I ciottoli non solo sono infiniti, ma la loro forma levigata li fa sembrare conianti come monete, e il possesso della pietra garantisce la costruzione di edifici robusti ed eterni. La pietra è ricchezza, non solo materiale ma anche spirituale, come ci ricordano due grandi scrittori tedeschi:
«Una ricchezza incommensurabile, l’acqua della vita, si cela nella pietra morta. Nessun tempo la estinguerà». (E. Jünger)
«Le pietre sono maestri muti, esse fanno ammutolire l’osservatore, e il meglio che si impara da loro non si può comunicare». (J. W. von Goethe)
La pietra, più di ogni altro elemento, rende evidente questa verità di Jünger: «Natur hat weder Kern noch Schale, / Alles ist sie mit einem Male» (La natura non ha né nocciolo né guscio, / Essa è tutta in una volta).
Il comune quarzo o il noto Selciato del gigante presentano conformazioni regolari con un rigore geometrico dal quale «l’occhio presagisce la legge del mondo dei numeri, elevata al di spora della morte e della vita» (Jünger). La pietra, trionfo del tempo, è tornata oggi come misurazione del ritmo: la sostanza degli obelischi e delle meridiane di pietra si è ritrovata nel cuore degli orologi al quarzo. È una materia prima che rimane costante fin dalla selce della caccia e del sacrificio. La pietra ci rappresenta: «Con l’arma e l’utensile di pietra inizia l’emancipazione dell’uomo dal regno più ristretto della natura e con l’incisione e la pittura sulle rocce, in maniera sorprendente, la sua arte». Nella roccia il tempo ha un respiro più lento: gli uteri di roccia, le grotte, i templi del tempo, ne sono testimoni.
«Tutto ciò che definiamo storia è in larga misura dipendente dalla pietra. Ciò vale per la storia della Terra, della natura e per la storia universale nel senso più ampio, dunque per la formazione dei pianteti, la comparsa delle piante e degli animali, e anche dell’uomo, insieme con la sua genesi e preistoria, fino al presente» (Jünger). Conosciamo, anche se molto parzialmente, il mondo preistorico animale e vegetale solo grazie ai fossili e alle stratificazioni rocciose. Nella roccia troviamo disegni meravigliosi e testi straordinari. Nella roccia scorgiamo i primi volti della Terra, risalenti a più di quattro miliardi di anni fa, e prima di loro, come prima delle scritture, giace un tempo oscuro, l’Adeano, l’eone degli inferi.
Così conosciamo i popoli della pietra meglio di quanto potremmo conoscere i popoli del legno. Templi di pietra, tombe di pietra, altari, tavole della legge e steli delle scritture. Tuttavia, come dice Jünger, «non è tanto il materiale a dare origine ai popoli storici, quanto la coscienza del tempo che vi è connessa, e non a caso li ha portati a scegliere la pietra così da perpetuarsi in essa e con essa». Tale coscienza ha una potenza ordinatrice, ogni pietra è una stella della terra grazie alla quale possiamo orientarci nel passato più remoto.
Nella pietra si riconoscono le forze ctonie, esse smuovono il manto terrestre lasciando segni di un mondo invisibile. Il minatore, riconoscendo questi segni, non solo era annoverato tra i sapienti, ma anche tra gli immortali: discendente delle creature infere, degli elfi, dei nani e degli spiriti della Terra, era conoscitore e figlio delle antiche forze telluriche. Nell’Heinrich von Ofterdingen Novalis narra di un minatore che si avventura nelle profondità della terra, percorre buie gallerie fino a incontrare un bianco romito senza età. Con gentilezza il romito fiuta l’ospite come un astrologo a rovescio: come questo scruta il cielo negli spazi sconfinati, egli volge lo sguardo alla terra e alla sua architettura; quello studia le forze e gli influssi delle stelle, e lui quello del sottosuolo e delle montagne. L’astrologo vede l’immagine del futuro, l’uomo della terra scorge, fra gli strati di pietra, l’immagine del passato. Tra cielo e terra la comune cappa della notte avvolge i loro sguardi là dove essi si uniscono nel segreto di fondo che anima questo istante.
Presenziare tra i monti sotto le stelle è già molto più di quanto potremmo sperare dalla vita. Il sublime è tanto legato alla pietra quanto alle stelle. E se pensiamo che la pietra è il vessillo sotto il quale il centro del mondo e il centro dell’uomo coincidono, allora comprendiamo che noi non siamo parte di questo mondo, ma siamo questo mondo. Allora non ci sembra più strano notare che il nucleo della nostra anima sia rappresentato dalla cosa che forse ci è più lontana in natura: non un animale o una pianta, l’acqua o il fuoco, ma la pietra, muta, immobile e duratura, centro di un essere che in lei si scopre parlante, mobile e perituro. Perché se da un lato c’è la speranza di aggrapparsi a qualcosa che non perisce, dall’altro c’è l’agnizione di confrontarci con qualcosa che ci supera e ci rammenta che siamo temporanei. Perché la pietra, come è stata presso i nostri avi, sarà presso i nostri nipoti. Così la pietra diventa il simbolo dell’esperienza più assoluta e profonda, l’esperienza dell’eterno e, in un certo senso, dell’immortalità.