Non è semplice per un artista tradurre le proprie vicende personali, il proprio vissuto, in qualcosa che va oltre il mero autobiografismo, la pura autoreferenzialità. È una dote rara quella di saper trasformare le proprie ossessioni, le ansie, le emozioni più recondite in opere d'arte capaci di parlare un linguaggio universale, accessibile a tutti. L'artista e regista Shirin Neshat (nata il 26 marzo 1957) ci riesce in modo esemplare. Sarà per la sua condizione di esule, vivendo ormai da tempo a New York, lontano dalla sua terra d'origine, l'Iran, che non vede dal 1996. Sarà per la sua identità "in transito" e per l'educazione ibrida, che si palesano in quell'attitudine raminga propria di chi non riesce a trovarsi davvero a casa sua in nessun luogo. E allora, ecco che l'arte diventa la propria voce e, in certi casi, la propria arma, lo strumento perfetto per comunicare riflessioni e sensazioni, per aprirsi al mondo intero. Un'arte che, nel caso di Shirin Neshat, non può che essere sincretica, tesa ad annullare confini e stereotipi.
“You can take an Iranian out of Iran, but you cannot take Iran out of an Iranian” è un'espressione che per l'artista ben esemplifica la sua condizione di esule e cosmopolita divisa tra Occidente e Medio Oriente. Fin dalla giovane età (a 17 anni si trasferisce negli USA per studiare alla University of California, Berkeley), Shirin Neshat ha imparato a essere "nomade".
Oggi, con un Leone d'oro alla 48. Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia per le videoinstallazioni Turbulent e Rapture e un Leone d'argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia del 2009 con l'opera prima Donne senza uomini, Shirin Neshat è una delle più importanti e apprezzate artiste visive. Uno status che probabilmente non avrebbe potuto raggiungere se la sua vita fosse continuata in Iran. Eppure, è anche grazie alla nostalgia per la sua terra natia e al rapporto contrastato con essa, che ha potuto realizzare opere dalla forte valenza etica oltreché estetica, lavori che hanno fatto il giro dei principali musei del mondo, dalla Tate di Londra al Guggenheim Museum di New York, alla Kunsthalle di Vienna, solo per citarne alcuni.
Looking for Oum Kulthum, il secondo lungometraggio di Shirin Neshat, arriva dopo una carriera artistica trentennale che l'ha vista indagare e portare l'attenzione soprattutto sui conflitti di genere e sulle difficili condizioni sociali delle donne all'interno del mondo islamico. Co-prodotto da In Between Art Film, casa di produzione che sonda i confini tra cinema e arte contemporanea, il film è basato sulla vita e l'arte della leggendaria cantante egiziana Oum Kulthum (1904-1975), diva del mondo mediorientale, osannata da milioni di persone benché semisconosciuta agli occidentali. Formalmente impeccabile, Looking for Oum Kulthum mescola in modo suggestivo i piani della realtà e dell'immaginazione, ricorrendo anche a filmati di repertorio, e aggiunge un ulteriore importante tassello nel percorso di Shirin Neshat, che oggi sembra avere metabolizzato la nostalgia dell'Iran pre-rivoluzione islamica, il senso di perdita e la sofferenza del distacco, ma che continua con le sue opere a puntare lo sguardo sull'essere donna in contesti di autoritarismo politico, di fanatismo religioso, di oppressione e libertà ristretta in una perenne altalena tra forza e fragilità.
Ho deciso di non fare un film biografico storico, ma di raccontare una storia personale, condividendo il mio punto di vista e le mie difficoltà di regista donna iraniana che cerca di fare un film su un'icona egiziana. La sceneggiatura finale quindi racchiude proprio le ossessioni, le difficoltà il processo creativo e la scoperta di sé inaspettata che ho attraversato io stessa, capendo che guardando il destino di un'emblematica donna artista del Medio Oriente, sto guardando alla mia stessa esperienza e a quella di altre donne del Medio Oriente che hanno deciso di perseguire un talento o una carriera professionale, ha dichiarato l'artista.
Al di là di questa sua ultima raffinata prova cinematografica, Shirin Neshat non ha certo abbandonato il suo primo mezzo espressivo, la fotografia, con la quale negli anni Novanta ha guadagnato attenzione e lodi grazie alle emblematiche serie The Unveiling e Women of Allah, prima di cimentarsi anche nella video arte e nel linguaggio filmico, con uno stile peculiare, venato di lirismo e teatralità, spesso ipnotico. Da poco si è conclusa al Museo Correr di Venezia la mostra The Home of My Eyes, comprendente una cinquantina di fotografie che Shirin Neshat ha realizzato tra il 2014 e il 2015: ritratti di persone provenienti da varie parti dell’Azerbaijan – uno stato che ha ricordato all’artista il suo paese natale – disposti come a comporre “un arazzo di volti umani”, nelle parole della stessa Neshat. Qui l'attenzione è rivolta ai concetti di identità culturale, di casa, di appartenenza e comunità, facendo leva sull’aspetto psicologico ed emotivo dei soggetti ritratti. L'artista ha intervistato ciascuno di essi, soffermandosi su tali concetti, e riportando le loro risposte sotto forma di fitta trama calligrafica (elemento ricorrente nei suoi lavori) sovrapposta alle immagini.
Foto Gallery
L'arte è l'unico posto in cui posso essere più sincera e profonda e in cui affrontare davvero questioni legate ai dubbi, alle paure, alle ansie, alle speranze, ai sogni...
Una personalità forte quella di Shirin Neshat, che lo scorso agosto ha espresso il suo talento creativo persino in un ambito fino a quel momento inesplorato: l'opera lirica. Su invito del Festival di Salisburgo, infatti, ha diretto l'Aida, con l'orchestra guidata da Riccardo Muti, rivisitando l'opera con il suo sguardo di artista in bilico fra Oriente e Occidente, fra cultura d'origine e cultura d'elezione. Insomma, che lo faccia attraverso la fotografia, la video arte, il cinema o l'opera lirica, Shirin Neshat non cessa di interrogare se stessa, come donna, come esule, come artista, e lo fa spronando anche noi a porci delle domande, a riflettere sulle contraddizioni e discrepanze insite nel mondo contemporaneo, parlandoci di potere e vulnerabilità, libertà e smarrimento, con coraggio e coscienza. Chissà se almeno i suoi lavori troveranno mai un posto in Iran.
Pollock e la natura
RSI Cultura 16.02.2024, 01:00