Uno scrittore e il suo… traduttore – Alessandro Manzoni e Johann Wolfgang Goethe, al quale si deve la prima nonché insuperata versione in tedesco del Cinque Maggio – sostenevano giustamente che in ultima analisi è una semplice (si fa per dire) questione di “cosa” e “come” (wie und was nella lingua del traduttore, che operò una geniale e suggestiva variazione sul tema in un meraviglioso gioco narrativo intitolato Favola). La ricerca storica racconta i fatti e ricostruisce “cosa” è accaduto, mentre la letteratura, in quanto reinvenzione della realtà, racconta “come” quei fatti sono stati concretamente vissuti, con quali sentimenti e quali emozioni: gli “impedimenti dirimenti”, la peste a Milano, l’assalto ai forni, la Colonna infame, il buon senso che «c’era ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune», oppure la Campagna di Francia, il Carnevale romano, l’incontro con Napoleone a Erfurt.
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Per capire ad esempio “cosa” sia stata la storia italiana dall’immediato dopoguerra ai primi anni Settanta, passando per la ricostruzione, il boom economico e la conseguente “congiuntura”, ci sono molti ottimi studi di carattere saggistico, ma per capire “come” quel periodo storico sia stato concretamente vissuto bisogna ricorrere alla letteratura e al cinema (al neorealismo, anzitutto, e poi alla commedia all’italiana). Non che, nel caso della letteratura, manchi l’imbarazzo della scelta, ma se proprio si deve individuare uno scrittore che ha fotografato quel periodo con precisione chirurgica ma nello stesso tempo con simpatica e a volte dolente e malinconia ironia, allora la scelta non può che cadere su Ennio Flaiano.
Tra i tanti libri di memorie e testimonianze dedicati a Flaiano, pescarese di nascita ma romano di adozione, e il cui lascito letterario è in parte conservato presso la Biblioteca Cantonale di Lugano, Il mio Flaiano – Il satiro malinconico di Enrico Vaime è senza alcun dubbio uno dei più importanti e significativi, perché Vaime – anche se più giovane di quasi trent’anni – fu legato a Flaiano da un’amicizia purtroppo molto breve (i due cominciarono a frequentarsi regolarmente soltanto a partire dal 1966, quando collaborarono alla stesura della serie televisiva Carta bianca con Anna Proclemer, e Flaiano morì solo sei anni dopo, nel 1972) ma in compenso molto profonda. Un’amicizia, insomma, che non è esagerato definire un’autentica affinità elettiva, fatta di lunghe ore trascorse insieme, nelle torride estati romane, a scrivere ma soprattutto a discorrere, oziare e “perder tempo” nel senso più nobile e schiettamente umano del termine: «Il cosiddetto “tempo perso” – ha osservato lo stesso Vaime in un altro suo volume di memorie – non è mai tempo perso, perché è il tempo della vita». E’ davvero impossibile dargli torto.
Nato a Perugia il 19 gennaio 1936 e morto a Roma il 28 marzo 2021, Enrico Vaime è stato uno dei più brillanti autori radiofonici e televisivi italiani, da solo e in coppia con Italo Terzoli (la cosiddetta “premiata ditta Terzoli & Vaime”). Entrato in Rai nel 1960, ha firmato per la tv circa 200 programmi, mentre per la radio ha collaborato a centinaia di programmi e per decenni ha condotto Black Out, su Radio2, il sabato e la domenica mattina. Ha pubblicato inoltre numerosi libri, tra i quali Tutti possono arricchire tranne i poveri, Le braghe del padrone, Non contate su di me, I cretini non sono più quelli di una volta, Il meglio è passato e la “quasi autobiografia” Gente perbene, solo per citare alcuni titoli, ma l’elenco è lunghissimo.
Ironico, sarcastico, pungente e corrosivo, come del resto suggeriscono i titoli dei suoi libri, ma sempre “leggero” nel senso nobile del termine, Vaime ha restituito in molteplici variazioni le poche virtù e i molti vizi dell’eterna Italietta dell’arte di arrangiarsi, dello “stellone” e del “tirare a campare”: la sua inestirpabile “mentalità balneare” (la definizione, semplicemente geniale, è ovviamente di Flaiano: «tutti bagnini, che aspettano soltanto l’estate»), la mancanza di sintassi interiore, più in generale la tendenza a soffocare il meglio e lasciar suppurare il peggio. Perché il “dottore” è sempre “fuori stanza”, la responsabilità è di tutti e quindi di nessuno, i treni partono in anticipo per non arrivare in ritardo (non è surrealismo, è una notizia di cronaca), le rivoluzioni vengono rinviate per pioggia e infine, come ricordava giustamente Winston Churchill, si va alla guerra come se fosse una partita di calcio e alla partita di calcio come se fosse una guerra. Ci vorranno forse un po’ di tempo e la giusta distanza critica per valutare la sua opera nella maniera adeguata, ma in quel momento Enrico Vaime verrà considerato con pieno diritto un testimone del tempo, imprescindibile per capire cosa sia stata l’Italia negli ultimi decenni del ventesimo secolo.
Come è facilmente intuibile dal titolo del libro, Vaime racconta il “suo” Flaiano, con una legittima sottolineatura della dimensione personale, ma basta la lettura di poche pagine per capire che il “suo” Flaiano è anche il “nostro” Flaiano, uno scrittore da educazione da adulti – non ce ne sono moltissimi, e Flaiano è in ottima compagnia – che ha insegnato a chiunque abbia voluto capirlo un particolarissimo modo di osservare e considerare il mondo, la vita e il cuore di tenebra dell’animale-uomo: una tragicommedia alla quale si può e si deve rispondere con la pietas e col riso, se non altro perché, come dice un suo famoso aforisma, la risata e lo scherzo sono rimasti ormai «l’unico modo per essere seri». I famosi “sei personaggi” di Pirandello «non cercano più un autore, ma una maschera».
Educazione da adulti significa anche educazione allo scacco e all’inevitabile sconfitta («il raffinato orgoglio della rassegnazione»), che si identifica col passare del tempo, le illusioni perdute e la consapevolezza della morte «che procede per allusioni» (per Flaiano sono soprattutto la noia, la stanchezza morale, il disincanto, il disinteresse per una realtà umana e sociale sempre più abietta, sordida e meschina). Non è più tempo, insomma, per fingere serietà al cospetto di cose che non dicono più nulla all’immaginazione. Vaime cita al proposito una riflessione poco conosciuta, messa per iscritto da Flaiano durante la convalescenza dopo il primo infarto che lo colpì a sessant’anni, nel 1970 (il secondo, due anni dopo, gli sarà fatale).
E’ una riflessione molto importante, perché dice moltissimo di quella che Flaiano aveva definito la “malinconia canina” e più in generale del suo rapporto da italiano atipico con l’Italia e l’italianità: «Vado verso una solitudine scandinava, evitando di leggere i giornali, sforzandomi di credermi uno straniero, in modo da trovare non dico piacevole, ma almeno stimolante il mio soggiorno in questo paese caratteristico. Arrivati alla mia età, ci si accorge che è stato un bello scherzo nascere qui; ma ormai è fatta, e la sola cosa che desidero è di non morire. Penso spesso di trasportarmi altrove, in un paese stupido ma onesto, e ho solo timore che sia troppo tardi». Sarà troppo tardi, infatti, non solo per motivi cronologici e di salute, ma anche perché Flaiano sapeva benissimo che il “paese stupido ma onesto” non esiste e che la tanto favoleggiata isola deserta è ormai diventata (sono sue parole) «una periferia» verminosa e cancerosa, simile appunto a un tumore primario i cui secondarismi «si sono mangiati il centro».
Vaime porta inoltre a termine un compito intrapreso negli scorsi decenni da un altro fraterno amico di Flaiano, Giovanni Russo, che scrisse alcuni libri per combattere e debellare la cosiddetta “flaianite”, vale a dire l’utilizzo strumentale e molto spesso erroneo dei celebri aforismi e di molte frasi espunte dalle opere in una maniera del tutto arbitraria e fuori contesto. L’esempio più evidente è forse quello del “marziano a Roma”, che ormai – per una strana e ingiustificata nemesi che ha colpito anche titoli come “il rosso e il nero”, “l’educazione sentimentale”, “il deserto dei tartari” e in tempi più recenti “la grande bellezza” – è diventato uno di quei luoghi comuni che Flaiano molto semplicemente detestava.
Vaime, da parte sua, ricorda tra l’altro che la celebre frase «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: fascisti e antifascisti» non è di Flaiano, perché non c’è in nessuno dei suoi libri, ma del suo interlocutore, amico e compagno di malinconie Mino Maccari. Indipendentemente dalla paternità, si tratta di una frase che esprime una verità tipicamente italiana, tanto paradossale quanto difficilmente contestabile: l’antifascismo settario tende infatti ad isolare le opinioni e corre il rischio di trasformarsi in dittatura giacobina, mentre il qualunquismo reazionario tende a spoliticizzare la società e rischia di degenerare in una dittatura pervasiva e quindi totalitaria. Sono invece di Flaiano queste considerazioni, non meno incontestabili: «Gli interessi economici molto forti possono modificare non soltanto il gusto, ma la biologia di un popolo»; «Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa».
Ennio Flaiano, a cura di Maria Grazia Rabiolo
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La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (1/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:43
La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (2/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:43
La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (3/5)
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La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (4/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:44
La satira, la noia e la fede: le risposte di Ennio Flaiano (5/5)
RSI Cultura 09.12.2019, 10:44
Con la consueta e gustosissima autoironia, Flaiano aveva definito se stesso uno “scrittore minore satirico dell’Italia del benessere”, ma le considerazioni svolte da Vaime hanno il merito di riposizionarlo nel ruolo che gli compete, che è certamente quello dello scrittore di aforismi («quando non aveva voglia di scrivere», osserva simpaticamente Vaime, «si rifugiava nell’aforisma») ma anche e soprattutto quello del narratore di razza: «Flaiano – prosegue Vaime – era uno scrittore elegante, molto particolare, non inquadrabile in nessuna corrente e in nessun movimento letterario o culturale. Va giudicato per quello che ha lasciato, non per quello che gli altri hanno voluto vedere nella sua opera, inquadrandolo poi in momenti della cultura italiana che a Flaiano forse neanche risultavano».
Non va dimenticato, e infatti Vaime non manca di ricordarlo a più riprese, che l’aforista Flaiano, maestro della prosa breve e del quadro d’ambiente nonché sapido osservatore delle piccole e grandi miserie del demi-monde, è anche l’autore dello straordinario romanzo Tempo di uccidere. Ambientato in Etiopia durante l’infame e abietta occupazione italiana (Flaiano vi partecipò malgré lui col grado di sottotenente e ne trasse anche un diario dal titolo Aethiopia – Appunti per una canzonetta), è un romanzo di quasi insidiosa bellezza, scritto in punta di penna, con scelte lessicali estremamente inusuali e coraggiose, sostenute da uno stile di lentezza ottocentesca ma con spicchi simbolici che lo situano perfino al di là delle avanguardie.
Sgradevole quanto imprescindibile, pubblicato nel 1947 su insistenza di Leo Longanesi, Tempo di uccidere rimane uno dei grandi romanzi italiani del secondo dopoguerra. Forse il più grande in assoluto per qualità di scrittura, sicuramente il più sottovalutato. Lo si dovrebbe leggere nelle scuole, magari insieme a Il deserto della Libia di Mario Tobino e Guerra in camicia nera di Giuseppe Berto, se non altro per significare alle giovani generazioni cosa siano stati veramente il fascismo italiano e il suo colonialismo da pezzenti.
Il mio Flaiano getta inoltre una luce chiarificatrice e definitiva su questioni per lungo tempo dibattute, in particolare sull’amicizia, la collaborazione e infine il dissidio con Federico Fellini. Secondo Vaime, che attribuisce quasi interamente allo sceneggiatore Flaiano il merito di film come La dolce vita e soprattutto Otto e mezzo, «Fellini non sarebbe diventato Fellini senza Flaiano, ma lo stesso Fellini ha avuto il merito, con la sua grandezza, di rendere popolare la genialità di Flaiano». Un giudizio che, in mezzo ai fiumi di chiacchiere che scorrono ormai da decenni, pare di gran lunga il più misurato e il più vicino alla verità, anche perché smussa gli spigoli di un aforisma nel quale Flaiano era stato piuttosto ingiusto e ingeneroso nei confronti di Fellini e di altri registi coi quali aveva lavorato: «Lo sceneggiatore è colui che mette il padrone dove vuole l’asino».
Le "Lettere scontrose" di Alessandro Robecchi
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Lettere scontrose... a Stanislaw Lem
Lettere scontrose 20.12.2021, 09:40
Lettere scontrose... a Ennio Flaiano
Lettere scontrose 21.12.2021, 09:40
Lettere scontrose... a Biancaneve
Lettere scontrose 22.12.2021, 09:40
Lettere scontrose... a Akakij Akakievič
Lettere scontrose 23.12.2021, 09:40
Lettere scontrose... a Georges Wolinski
Lettere scontrose 24.12.2021, 09:40
Il mio Flaiano si potrebbe quindi considerare come un’ideale appendice alle opere complete oppure un’introduzione alla lettura. «Io non ho mai immaginato Flaiano come non presente», dice Vaime. E in effetti è così: a poco più di cinquant’anni dalla morte, Flaiano è sempre presente e sempre più necessario. Dice un suo aforisma: «“E vissero tutti felici e scontenti…”. Così, per non ingannare il suo bambino, termina le favole». E’ «il massimo della sconfitta», commenta Vaime, ma sono anche «parole di una sincerità struggente», che fanno pensare allo stupefacente apologo del calabrone, vertice assoluto del genio di Flaiano.
Vaime lo riporta non a caso alla fine dei ricordi, come una sorta di congedo, perché fotografa in poche righe quella misera cosa che è la condizione umana: «Il calabrone entra nella stanza illuminata, va a sbattere velocemente contro la lampada, le pareti, i mobili: rumore secco delle sue zuccate. Dopo un po’ si acquatta per riprendere le forze. Ricomincia contro la lampada, le pareti, i vetri e daccapo la lampada. Infine cade sul tavolo, zampe all’aria; la mattina dopo è secco, leggero, morto. Non ha capito niente, ma non si può dire che non abbia tentato».