Letteratura

La compresenza di tutti i tempi

Carlo Levi a mezzo secolo dalla morte: alla ricerca di “un volto che ci somiglia”, perché “Cristo” (forse) non si è fermato a “Eboli”

  • 4 gennaio, 13:41
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Carlo Levi

Di: Mattia Mantovani 

Cinquant’anni e non sentirli, o forse sentirli fin troppo. Perché nel mezzo secolo che ci separa dalla scomparsa di Carlo Levi (nato a Torino il 29 novembre 1902 e morto a Roma il 4 gennaio 1975), all’apparenza è cambiato tutto ma nella più intima sostanza non è cambiato nulla, al punto che verrebbe voglia di rispolverare le parole di Guy de Maupassant, che insieme a Stendhal è stato il grande maestro della sua educazione da adulto: «Beati coloro che non si accorgono, con immenso disgusto, che nulla cambia, nulla passa e tutto stanca». Si potrebbe forse eccepire sul “disgusto”, che forse è un misto di noia e disincanto, ma per il resto è impossibile non essere d’accordo.

Operando una lieve ma sostanziale variazione sul titolo del suo libro più celebre, si può dire insomma che “Cristo” si è fermato veramente a “Eboli”, malgrado il “torinese del Sud” Levi, dopo la pubblicazione del libro, si sia speso moltissimo (ma senza gli esiti sperati) affinché “Cristo” varcasse il confine simbolico di “Eboli” e il Meridione d’Italia uscisse da una secolare arretratezza. Nelle ultime pagine del libro, ripensando alla propria esperienza di confinato politico a Grassano e poi ad Aliano in Lucania, tra il 1935 e il 1936, Levi aveva infatti riflettuto a fondo sul futuro dell’Italia ed era giunto a formulare una precisa diagnosi: «In un paese di piccola borghesia come l’Italia, nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, e anche le più estreme, saranno portate a riaffermare in modi diversi quelle ideologie: ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più, lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano».

Si tratta di considerazioni che anticipano quello che Giovanni Arpino, nato nel 1927, definirà poi il «metafisico sconforto» e il «dolce strazio collettivo» dei rappresentanti della sua generazione, che nel primo ventennio del dopoguerra, dopo gli anni della Resistenza e dell’antifascismo, avevano vanamente sperato in un’Italia moderna, diversa, migliore, democraticamente matura e definitivamente affrancata dall’“eterno fascismo” (che è non solo –e non tanto, giova ricordarlo – il precipitato di un’odiosa ideologia politica, ma un volgarissimo modo di essere e una pretta mancanza di sintassi interiore, nella stessa misura in cui il tanto sbandierato e modaiolo antifascismo non dovrebbe ridursi a slogan radical-chic privi di reali contenuti).

Il futuro ingegnere Carlo Emilio Gadda  – studente del Politecnico di Milano, giovane nazionalista e interventista come l’amatissimo fratello aviatore Enrico (che morì nell’aprile 1918 durante un volo di ricognizione) – diventa scrittore negli oltre tre anni che lo hanno visto prendere parte come tenente degli Alpini alla prima guerra mondiale. Perché la guerra, da quel momento, diventa un’esperienza totalizzante non solo (non tanto, si vorrebbe quasi precisare) per la presenza del nemico da combattere, ma anche per l’indignazione causata dalla canaglia umana e dall’«egotismo cretino» dell’animale-uomo, che riduce tutto a una bassa questione personale e pensa soltanto al proprio tornaconto. La guerra, per Gadda, coincide con la vita.

Il percorso umano e biografico di Carlo Levi presenta molte analogie con Gadda, perché anche Levi non nasce scrittore. Medico per studio (si era laureato nel 1924 all’Università di Torino con una tesi sull’ipovolemia) e pittore per vocazione, si avvicina alla politica e sposa la causa antifascista grazie al decisivo incontro con Piero Gobetti e gli ambienti di riviste quali Energie Nove e Rivoluzione Liberale, ma diventa scrittore dopo i mesi di prigionia a Torino e Roma (venne ignobilmente denunciato da Dino Segre alias Pitigrilli, scrittorucolo di bassissimo rango e di infima moralità) e infine dopo il confino in Lucania. Esattamente come la guerra per Gadda, la civiltà contadina diventa per Levi una specie di reagente chimico che spiega per contrasto tutte le contraddizioni e storture della realtà umana e sociale. Ha scritto lo stesso Levi nella Poesia del confino.

M’avete fatto umano / baci dolenti, terre nascoste / dove un dolore antico / era prima del mio arrivo. / Come un classico dio mendico / sono stato in mezzo al grano / povero e alle scomposte / colline del grigio ulivo

Carlo Levi, Poesia del confino

Secondo Levi, per fronteggiare l’“eterno fascismo” italiano c’era un’unica strada percorribile, quella dell’autonomia e del federalismo (un’autonomia e un federalismo, va da sé, ricalcati sul modello elvetico, seriamente meditati e strutturati, non un pastrocchio da Bar dello Sport): «Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, un’organica federazione, le cui basi andrebbero individuate nella tradizione della democrazia diretta, non in quella della democrazia rappresentativa. Questa è l’unica via per risolvere l’antica crisi dello Stato italiano». E’ il percorso che era stato indicato anche da Rocco Scotellaro, giovane scrittore e politico lucano (morto a soli 30 anni nel 1953), del quale Levi fu paterno e fraterno amico, che aveva parlato del decentramento come di una «questione di civiltà».

Alcuni anni dopo la pubblicazione di Cristo si è fermato a Eboli, nel 1950, in quel libro-meraviglia che è il romanzo-saggio L’orologio (una narrazione polifonica che ha restituito quasi in tempo reale le speranze e disillusioni dell’immediato secondo dopoguerra: la caduta del governo di Ferruccio Parri e il conseguente fallimento degli ideali della Resistenza, differiti nelle «promesse di un lontano futuro» e nell’«oscura nebbia di una vana nostalgia»), Levi svolse considerazioni ancora più sostanziali, parlando delle «idolatriche paure» della «sterminata, informe, ameboide piccola borghesia». E’ in un simile contesto che si situa la celebre distinzione tra “contadini” e “luigini”, che quasi ottant’anni dopo è ancora validissima (basta sostituire “contadini” con “cittadini”, e “luigini” con “basse mene della politica” oppure “apparato burocratico”: a conferma del fatto che è cambiato tutto, ma non è cambiato nulla).

Il termine “contadini” trae origine dalle esperienze vissute nel periodo di confino in Lucania, ma possiede un significato molto più ampio e indica «tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano», più in generale tutti coloro che sono a stretto contatto con la realtà della vita nelle sue varie forme e declinazioni. I “luigini” (il termine prende spunto dalla figura di don Luigi detto “Luigino” Magalone, grigio e ottuso burocrate nonché  podestà di Aliano in Cristo si è fermato a Eboli) sono invece «tutti gli altri: quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano». Lontani dalla realtà autentica della vita, i “luigini” «sono tanti», la maggioranza che tiene in piedi «un sistema vecchio, che è ancora quello borbonico, ma perfezionato col tempo, e finalmente, con il fascismo, reso legale e pienamente giuridico».

Cristo si è dunque fermato a Eboli, ma il suo autore non ha smesso di viaggiare in terre vicine e lontane. Il motivo lo ha spiegato lo stesso Levi nell’introduzione all’edizione italiana di Roma, Napoli e Firenze di Stendhal, uscita nel 1960: «Nel viaggio è presente una frattura che è sempre una fuga, un’inconsapevole ricerca, uno scampo, un abbandono». La conseguenza è un voluto sfalsamento prospettico, perfino un paradosso: non viaggia soltanto chi si muove nello spazio e nel tempo del presente, ma anche coloro che restano e «viaggiano all’indietro nel tempo immobile». La dialettica e la sintesi di queste due modalità del viaggio permette di percepire la «compresenza di tutti i tempi» e il «valore poetico del casuale». Il “viaggio”, nella sua connotazione concreta e metaforica, costituisce quindi la credenziale più autentica della sua proposta poetica.

Perché il narratore, pittore e saggista Carlo Levi, col suo umanesimo moderno e il suo coraggio civile, è stato anzitutto un viaggiatore. A partire dal 1950, infatti, dopo la pubblicazione di Cristo si è fermato a Eboli, del saggio Paura della libertà (scritto in esilio in Francia nel 1939, ma pubblicato alla fine della guerra, nel 1946) e de L’orologio, la sua produzione letteraria consiste quasi esclusivamente di resoconti di viaggio. Le destinazioni sono all’apparenza molto differenti: la Sicilia di Le parole sono pietre (1955), l’Unione Sovietica di Il futuro ha un cuore antico (1956), la Germania divisa de La doppia notte dei tigli (1959) e la Sardegna di Tutto il miele è finito (1964), senza dimenticare l’India e la Cina visitate nel 1959, i molti viaggi negli Stati Uniti e infine il soggiorno in Cile nel 1971 (i resoconti di questi ultimi viaggi, usciti originariamente su La Stampa di Torino e varie riviste, sono stati raccolti nei volumi postumi Buongiorno, Oriente e Il pianeta senza confini). Ma le premesse e gli esiti sono gli stessi: l’osservazione e lo studio microscopico delle tante “Eboli” presenti nel mondo, la ricerca della “compresenza dei tempi”, del “casuale” e del suo valore fondante, anche come principio metodologico, istanza e paradigma morale, approccio alla realtà.

Se il viaggio in Sicilia raccontato in Le parole sono pietre è una specie di continuazione del viaggio nello spazio geografico ma soprattutto nel tempo immobile della Lucania del confino, nel caso dell’Unione Sovietica, visitata tra ottobre e novembre del 1955 con lunghe soste a Mosca, Leningrado, Kiev, in Armenia e Georgia, il motivo del viaggio è costituito da una vicenda editoriale, la pubblicazione dell’edizione in lingua russa di Cristo si è fermato a Eboli. Le premesse sono simili a quelle del viaggio in Germania compiuto tre anni dopo, ma sono molto differenti i contesti, le situazioni e non da ultimo alcuni giudizi, in particolare quelli riguardanti le comuni agricole nelle zone rurali di Bielorussa, Ucraina e Crimea.

Pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, Levi le paragona infatti non senza ragioni (come farà in seguito con le comuni del popolo in Cina) alla civiltà contadina conosciuta in Lucania durante il confino, ma le considera un po’ ingenuamente (per quanto si debba tenere presente il preciso periodo storico), come una valida e praticabile alternativa alle forme di produzione capitalistica. Una simile valutazione appare francamente un po’ datata, anche perché smentita dal concreto divenire storico, ma rimane il fatto che Il futuro ha il cuore antico, ben più che un semplice resoconto, si configura nel suo insieme come un vero e proprio poema di viaggio, perché Levi trasforma ogni incontro con l’altro e lo sconosciuto in un’occasione di colloquio, di confronto e rispecchiamento, soprattutto nelle bellissime pagine ambientate in Armenia e Georgia.

La doppia notte dei tigli costituisce invece il resoconto più sofferto e difficile per un autore di origini ebraiche che quindici anni prima, a Firenze, mentre scriveva Cristo si è fermato a Eboli in un appartamento di Piazza Pitti, sentiva ogni notte il rumore degli stivali delle SS sul selciato delle strade e temeva per la propria vita. Levi racconta un viaggio compiuto in Germania nel 1958 (con tappe a Monaco di Baviera, Dachau, Augusta, Ulm, Stoccarda, Schwäbisch Hall, Tubinga e Berlino) in occasione della preparazione per un editore tedesco del volume fotografico Italia - Un volto che ci somiglia, poi uscito nel 1960. Il viaggiatore Levi prende spunto dalla storica tendenza germanica alla “frammentarietà” (la “miseria tedesca”, secondo le celebri e urticanti parole di Heinrich Heine) e alla tensione espressa dal Faust di Goethe nel verso che dà il titolo al resoconto, contenuto nel quinto atto della seconda parte (il canto di Linceo il Torriere): «Quale orrore mi minaccia / dalla tenebra del mondo! / Nella doppia notte i tigli, / vedo, sprizzano scintille, / braci sempre più s’infiammano / attizzate dalla brezza».

La metafora esprime secondo Levi la situazione della Germania divisa (ma per estensione dell’intera Europa) nei tardi anni Cinquanta: tutto è calmo e silenzioso, ma da qualche parte cova un fuoco che potrebbe riattizzarsi alla prima brezza. Levi pone la citazione di Goethe in esergo allo scritto e la fa idealmente dialogare con le considerazioni del paterno e fraterno amico Umberto Saba sulla “diminuzione dell’intero genere umano” dopo gli orrori di Majdanek: «Tutti, vittime e carnefici, siamo  – e lo saremo per molti secoli ancora – molto meno di quanto fossimo prima». Quasi inutile aggiungere che si tratta di una metafora attualissima.

Tutto il miele è finito, dedicato all’incontro con la Sardegna, visitata due volte a dieci anni di distanza, nel maggio del 1952 e nel dicembre del 1962, è l’ultimo reportage di viaggio di Levi pubblicato in vita ed è quello in cui si avvertono maggiormente il valore del casuale e l’idea della compresenza dei tempi. Levi si inserisce nel solco tracciato nel 1932 da Elio Vittorini con Sardegna come un’infanzia e nel 1938 da Emilio Lussu con Il cinghiale del Diavolo e descrive una Sardegna all’apparenza molto tradizionale, una terra di pietre e pastori (che tornerà poi in Padre padrone di Gavino Ledda), ma anche una terra in cui si avverte più che altrove uno sfasamento cronologico che rende difficile e anzi impossibile una netta distinzione tra il passato e il presente.

Come in Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre, Levi riesce a rendere visibile e quasi palpabile l’abissale e vertiginosa complessità e profondità di un tempo che oscilla costantemente tra il dinamismo del presente e della Storia e la stasi di una dimensione preistorica, o perfino astorica e prelogica. Ecco perché le sue puntuali descrizioni vanno ben oltre la cronaca e il resoconto di viaggio e restituiscono l’eco del tempo, di tutti i tempi, e quindi la loro compresenza. Nella sua visione della realtà, in questo davvero molto simile a quella di Stendhal, ci sono una “cristallizzazione” e una “qualità amorosa” che trasformano ogni minimo dettaglio in una fonte di incantamento. Lo si nota, in particolare, nel meraviglioso “racconto nel racconto” dedicato alle due cornacchie Oliena e Orune, così ribattezzate dal nome di due località della Barbagia.

Viene allora da chiedersi se talune certezze siano davvero tali, se “Cristo” si è proprio fermato a “Eboli” e se non sia possibile spostare, rimodellare e modificare i confini della percezione. L’intera produzione narrativa, saggistica e pittorica di Carlo Levi ci fa capire che si può (si deve) andare oltre “Eboli”, perché ogni luogo diventa un paesaggio, e quindi una possibile dimora, quando è scritto – nel senso di visto, percepito, vissuto, raccontato – in una lingua che si conosce. Si potrebbe quindi ribaltare almeno in parte il senso della metafora: “Cristo” non si ferma a “Eboli” soltanto se si impara finalmente a  guardare il mondo così com’è, con altri occhi, che non siano quelli dell’ottimismo aziendale, delle falsità ideologiche, della sordida e abietta volontà di potenza e sopraffazione, delle infantili pretese di aver capito qualcosa in generale, delle ubriacature pubblicitarie, della cronaca fine a se stessa e delle flaubertiane idées reçues.

Esiste ancora una lingua che si conosce e nella quale ci si comprende? Dove cercare quella “verità tra il giorno e la notte” tanto invocata da Friedrich Hölderlin e più volte ricordata da Levi nelle zone del grande poeta tedesco, tra Ulm e Tubinga? E’ rimasto qualcosa che ha “un volto che ci somiglia”? Oppure, come dice un terribile passo del viaggio nella Germania divisa, è destinato a prevalere il «rifiuto di vivere, per fedeltà a qualcosa che si sente non poter più essere vero»? In queste domande, e nelle possibili risposte, si può ravvisare a cinquant’anni dalla morte la fondamentale e ineludibile eredità contenuta nella vicenda umana e poetica e nell’altissimo magistero di Carlo Levi.
Un compagno di viaggio in un crepuscolo di apocalisse, forse. Sicuramente, un contemporaneo del futuro, che ci parla da una vibrante e vicinissima lontananza. Da una vicinissima lontananza, ad esempio, provengono queste parole del 1967:

La scalata al potere su tutta la terra nasce da una spietata logica interna di interessi, di attivismo espansivo, di forza, e tende a costituire sulle rovine degli imperi un grande, un unico impero illimitato e tecnologico.

Carlo Levi

Già sofferente di una grave retinopatia diabetica, dalla quale aveva preso spunto per la stesura del Quaderno a cancelli, il suo ultimo libro pubblicato postumo nel 1979, Carlo Levi venne ricoverato il 23 dicembre 1974 al Policlinico Umberto I° di Roma a causa di una broncopolmonite complicata da un’ipoglicemia. Cadde subito in coma, non si svegliò più e morì nel pomeriggio del 4 gennaio 1975. Per sua espressa volontà, dopo i funerali a Roma il feretro venne trasferito ad Aliano – il luogo del confino e della scoperta delle tante “Eboli” del mondo – e tumulato nel piccolo cimitero del paese, il limite ultimo concesso alle sue passeggiate da confinato, quarant’anni prima. La sua tomba, coperta da una semplice lastra di pietra, si trova proprio sull’orlo della montagna, di fronte ai calanchi tante volte descritti e tante volte dipinti. Forse il contemporaneo del futuro Carlo Levi continua a guardarli, come aveva fatto durante le sue passeggiate.

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