Non dovrebbe essere un’attività particolarmente piacevole, eppure al giornalismo musicale piace celebrare funerali: in mancanza – fortunatamente – di quelli veri, si pensa a quelli metaforici. L’ultimo che abbiamo osservato in ordine di tempo è il funerale dei tormentoni estivi. Pochi giorni fa perfino Luigi Manconi, ex senatore italiano protagonista di molte battaglie politiche su giustizia e diritti civili, rispolverava la sua (peraltro lunga) esperienza di critico per scrivere sulle pagine del quotidiano La Repubblica “Per i tormentoni, l’estate sta finendo”: una disamina che partiva dai Los Marcellos Ferial di Cuando Calienta El Sol per arrivare ai giorni nostri, giungendo alla conclusione che no, il pop italiano non era più in grado di sfornare tormentoni capaci di diventare universali, anche se solo per lo spazio di un'estate. Difficile dire che non sia un luogo comune delle ultime stagioni, altrettanto difficile dire che non sia vero. Vero, si potrebbe anche accogliere la notizia con il sorriso sulle labbra, ma non è il caso di discuterne ora. Rimaniamo ai fatti.
Niente più tormentoni
Se in Italia i grandi successi pop estivi sono dichiarati morti da un pezzo (o quantomeno declassati al ruolo di “tormentini”, citazione di Claudio Cecchetto pescata su La Regione già nel 2021), non si può certo pensare che nel resto del mondo vada meglio. Eppure un tempo l’estate era il momento giusto per imporre volti nuovi al mercato musicale di massa, meteore capaci di scalare le classifiche e poi essere dimenticate. In alcuni casi le hit estive erano irripetibile coronamento di percorsi in ogni caso di altissimo livello: tipo quello di Bobby McFerrin, che trocò il successo con Don’t worry, be happy, (a dire il vero arrivata solo verso la fine dell’estate 1998). In molti altri, artefatti musicali dei quali vergognarsi a distanza di anni: un genere che per amor di brevità riassumo con Who Let The Dogs Out? dei Baha Men (ai quali peraltro è impossibile voler male). Oggi non si trovano più pezzi a cui non si riesce a sfuggire, neanche volendolo. C’entrano tutti i motivi che sentiamo ripetere molto spesso: la frammentazione dell’ascolto, la perdita di potere da parte di radio e tv a favore delle piattaforme streaming, eccetera. Inutile sottolineare ancora una volta come la dimensione collettiva della musica si sia ristretta, nonostante i contenuti musicali siano effettivamente tra i più condivisi sui social network. Tutto vero, tutto ineluttabile. Ma il problema va molto oltre la stagione estiva: le case discografiche non riescono più a trovare – tutto l’anno solare, non solo tre mesi – nuovi volti capaci di sfondare, per usare un termine datato del quale forse dobbiamo iniziare a celebrare il funerale (again).
Troppe canzoni, poche hit
Di recente l’edizione americana di Billboard si è presa la briga di calcolare quanti “nuovi arrivati” sulla scena musicale siano stati capaci di entrare nelle top ten degli Stati Uniti – il mercato più importante al mondo, ancora oggi – negli ultimi due decenni: nel 2001 erano più di 30, nel 2021 solo 13. Il che non significa, ovviamente, che circoli meno musica nuova: al contrario, siamo davanti a un diluvio di uscite, migliaia di novità discografiche di cui pochissimi parlano, e che pochi ascoltano. Tutti hanno una canzone, nessuna o quasi riesce a raggiungere il grande pubblico, mentre i nuovi brani caricati ogni giorno sui servizi di streaming si contano in decine di migliaia. Certo, per la maggior parte si tratta di opere semi-amatoriali difficilmente destinate alle classifiche: addirittura, le statistiche raccontano che solo l’80% dei brani caricati su Spotify sono state ascoltate, e qualcuno ha perfino pensato di offire un servizio che compone playlist di canzoni mai sentite da nessuno (se vi interessa, fatevi un giro sul sito di Forgotify). Ma in ogni caso, inevitabilmente questa attività febbrile di pubblicazione alluviona il mercato e disturba l’attività delle case discografiche. Troppo rumore di fondo non fa bene alla musica. In un tempo neanche troppo lontano, “sfondare” significava essere recensiti dalle riviste, e poi portare la musica nelle radio e in televisione (magari da Letterman); oggi una canzone al numero 1 in radio significa relativamente poco. Meglio provare a comprare un biglietto per la Grande Lotteria di Tik Tok.
La musica? Meglio su Tik Tok
In effetti la piattaforma cinese è diventata una costruttrice di hit nel corso degli ultimi anni, ma segue logiche oscure e imprevedibili: può dipendere da una frase nel testo (come “now look at this” in Day N’ Nite di Kid Cudi o “all eyes on me” in Circus di Britney Spears), dal riferimento a un’epoca, dall’atmosfera… tutto può funzionare da propellente per mandare in orbita un pezzo, ma una ricetta codificata non esiste. Intendiamoci, l’altra faccia della medaglia è che molti più artisti medi e piccoli possono trovare una nicchia di pubblico. Ma diventare mainstream è diventato complicatissimo. Forse, semplicemente, il mainstream non esiste più.
È il motivo per cui sempre più spesso vediamo in televisione cantanti presentati come detentori di mirabolanti record di streaming e visualizzazioni, e che sono effettivamente sconosciuti al grande pubblico. Gianni Morandi può ancora andare in televisione senza bisogno di presentazioni, ma probabilmente quel tipo di fama universale, che si poteva raggiungere un tempo, è destinata a non esistere più. Un altro funerale da celebrare?