Musica Pop

La globalizzazione? E’ anche della musica Pop

Come gli autori occidentali sono arrivati a produrre hit per un mercato musicale senza più confini, dall’India alla Corea

  • 25 luglio, 09:19
  • 25 luglio, 09:21
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Di: Michele Serra

Cent’anni fa più o meno, Irving Berlin dettava a un giornalista le sue regole per scrivere una canzone popolare. Tra le altre cose: serviva un titolo semplice e che fosse presente nel testo; la canzone doveva parlare di fatti ed emozioni che potessero rientrare nell’esperienza di chiunque; la canzone doveva poter essere cantata da chiunque avesse una voce media.

Non sappiamo se queste regole siano ancora tenute in qualche considerazione dagli autori del pop contemporaneo, però siamo sicuri che ancora oggi questi ultimi siano alla ricerca della semplicità e dell’universalità considerate fondamentali da Berlin. E la seconda, soprattutto, sembra essere diventata molto più universale rispetto a un tempo, grazie alla globalizzazione iper-accelerata che abbiamo vissuto nell’ultimo quarto di secolo.

Qualche mese fa, l’edizione americana di Billboard raccontava la storia di David Arkwright, compositore e autore per Aloe Blacc e Bella Poarch, trasferitosi da Los Angeles a Mumbai per lavorare con la star indiana King, forte di pezzi da miliardi di stream come Maan Meri Jaan. Oggi Arkwright è solo uno dei tanti esempi di compositori americani mandati in giro per il mondo dalle case discografiche, a produrre hit per mercati lontani dall’asse Stati Uniti-Europa, emergenti o già ampiamente emersi. Un mix che pare funzionare molto bene, che si tratti di fenomeni locali come il Sertanejo (country-pop brasiliano) oppure di pop quintessenziale, ma di tutt’altre latitudini, come quello giapponese o coreano. 

È la globalizzazione, bellezza, e funziona in tutte le direzioni, soprattutto per il pubblico giovane. Se è vero che il 46% degli utenti americani di Tik Tok (che hanno un’età media piuttosto bassa) dichiara di aver scoperto grazie alla piattaforma musica non in lingua inglese nel corso dell’ultimo anno, è facile capire ad esempio perché festival enormi come Coachella ospitino sempre più facilmente artisti latinoamericani e orientali, o perfino africani. O perché un marchio quintessenzialmente americano come Coca-Cola abbia deciso di fondare un’etichetta di produzione e distribuzione musicale – chiamata senza eccessi di fantasia Coke Studio – che ha messo sotto contratto star coreane come le NewJeans o colombiane come Karol G. Dunque, ecco la globalizzazione degli ascoltatori: grazie alle piattaforme di streaming, non sono più solo gli artisti capaci di spedire fisicamente i loro vinili (o CD) all’estero, a poter trovare successo lontano da casa. Anzi, spesso proposte musicali percepite come esotiche possono essere considerate più appetibili dagli ascoltatori occidentali.

Soprattutto, però, è arrivata la globalizzazione di chi, la musica, la scrive. Seguendo i nuovi flussi di ascolto che stanno cambiando il mercato musicale, e a volte facendo di necessità virtù. Già qualche anno fa, infatti, Rolling Stone raccontava come diversi compositori di hit dell’R&B moderno avessero trovato rifugio in Corea. Alla fine degli anni Dieci infatti, la tracimazione della trap dentro il campo del pop aveva portato a una semplificazione delle strutture musicali dell’R&B da classifica, inseguendo il potente minimalismo che caratterizzava – e ancora in parte caratterizza, a dire il vero – il rap dell’epoca. Inoltre, l’uso sempre più frequente di vocoder, autotune e filtri vari, faceva sì che i compositori fossero sempre meno spinti a costruire bridge tra le strofe e i ritornelli, momenti in cui i cantanti dell’R&B pre-2010 potevano sfoggiare la loro ampiezza vocale, improvvisamente diventata meno importante. Gli autori dell’R&B americano non riuscivano più a comporre la musica con cui erano cresciuti e sulla quale si erano formati, insomma. Finché alcuni di loro scoprirono che esisteva un mercato in cui gli elementi fondamentali dell’R&B classico erano ancora presenti, pur se trasfigurati in chiave moderna: quello coreano. Così, iniziò la migrazione dei songwriter americani verso oriente, e improvvisamente alcune hit del K-Pop cominciarono a sembrare devoti omaggi a (o scopiazzature di, fate voi) Stevie Wonder. 

Oggi sono molti I compositori pop prestati alla Corea e al vicino Giappone (la cui musica pop è forse meno internazionale, ma certamente piuttosto ricca), e si tratta di nomi di primissimo piano come Ryan Tedder, frontman degli One Republic, che dopo aver prodotto blockbuster assoluti per Adele, Taylor Swift e Beyoncé è passato alle Blackpink. Ma ce ne sono molti altri, a tutti i livelli dell’industria. E non è raro che i compositori occidentali propongano canzoni alle star coreane e giapponesi, dando inizio a un lungo processo di produzione che, a dire il vero, dà più l’idea di un processo industriale, che di uno artistico. Generalmente, riporta sempre Billboard, il songwriter americano invia un demo in lingua inglese, poi una volta accettato dall’artista e dalla casa discografica subentra un paroliere/autore madrelingua coreano o giapponese, che riscrive i testi, diventando a sua volta autore. Non c’è da stupirsi, insomma, se le liste dei crediti si allungano sempre di più. Ma perché gli autori occidentali, e anglosassoni in particolare, sono spinti ad andare verso i mercati orientali? Naturalmente, è una questione di soldi.

Gli ascoltatori di Corea e Giappone sono infatti tra i pochi rimasti al mondo a comprare ancora album interi dei loro artisti preferiti, perfino in formato fisico, spinti dal proliferare di edizioni multiple e tecniche di marketing più o meno condivisibili, come i concorsi che mettono in palio una telefonata con la star (e naturalmente, acquistare più copie aumenta le possibilità di vincere per i fan). Così, i diritti d’autore risultano molto più alti rispetto a quelli pagati dal modello streaming-centrico dei paesi occidentali, e molti professionisti se ne sono accorti. Non c’è da stupirsi se, dal 2020 in poi, il drappello di autori americani al servizio del mercato orientale è diventato incredibilmente numeroso.

La globalizzazione musicale ha prodotto anche situazioni curiose, come una serie di collaborazioni tra misconosciuti produttori italiani e superstar globali del rap. Non è un mistero, ad esempio, la passione di Kanye West per l’Italia, che lo ha portato a mettere in piedi scene poco edificanti sui motoscafi veneziani, a frequentare lo stadio di San Siro e le campagne toscane. Ma soprattutto, a cercare collaborazioni con tecnici e produttori italiani: è noto che due dei suoi più fidati ingegneri del suono, Stefano Moro e Maurizio “Irko” Sera, siano veneti; meno, che due giovanissimi italiani, Hamza “Hemz” Hamaal e Arturo “Lester Nowhere” Fratini, entrambi poco più che ventenni, abbiano messo le mani su alcune delle sue ultime hit. Solo vent’anni fa, quest’idea sarebbe sembrata poco più che un sogno.

Non tutti, in ogni caso, sono riusciti a sfruttare a proprio vantaggio questa nuova normalità: se tutti possono arrivare ovunque, infatti, questo vale anche per chi vuole rubarti un’idea. Così, lo stesso Ye è stato accusato da un producer italiano, TSVI, di avergli rubato un sample. Del resto, che la globalizzazione avesse un lato oscuro ce l’avevano già detto i movimenti giovanili di un quarto di secolo fa

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