Musica Italiana

La metamorfosi di Francesco De Gregori

Da cantautore “inavvicinabile” a “persona normale” che gestisce il rapporto con chi incontra “su un piano umano senza passare per il terribile tunnel del divismo”

  • 2 ottobre, 12:02
  • 2 ottobre, 12:07
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Di: Patrizio Ruviglioni 

In Finestre rotte, un documentario sulla vita in tour di Francesco De Gregori del 2001, regia di Stefano Pistolini, si vede il cantautore romano schivare i fan in un’area di servizio. È una scena madre di quella che era già, e sarebbe diventata poi, la narrazione intorno a lui. C’è chi gli chiede una foto, chi un autografo; ma non si concede, dice di non essere uno dietro cui perdere tempo ‒ e per estensione, non lo è qualsiasi artista, personaggio famoso e il resto. E un pensiero che riprenderà nel brano Guarda che non sono io (2012): quella del mito è una proiezione falsa, dietro le star non ci sono che uomini, lasciate stare. Questo, che sembra un comportamento anti-divistico (e lo è), si può leggere anche in maniera opposta (e così sarà, l’uno non esclude l’altro): il fatto che uno dei padri della musica italiana degli ultimi cinquant’anni non dia alla gente ciò che vuole, ciò che si aspetta, indica un atteggiamento non accomodante, tutt’altro che semplice.

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De Gregori canta Dylan

RSI Cultura 30.10.2015, 12:01

È un pattern comunicativo che ha costruito l’immagine di un artista sia a portata di mano ‒ scuola Bob Dylan, è perennemente in tour, anche in location modeste ‒ e sia inavvicinabile, complesso, duro. Di nuovo, quando ha provato a demitizzare l’idea che l’opinione pubblica ha di lui, fugando l’equivoco per cui i suoi testi sarebbero poesie (quella, ripete, è altra: queste qui sono canzoni) o rimettendo a terra il discorso, suggerendo che nei pezzi non ci fosse niente da capire o, peggio, da spiegare, negando così decenni di interpretazioni collettive. O quando, ancora, aveva intentato causa a Gianni Morandi, reo di aver cantato Buonanotte Fiorellino omettendone l’ultima parte, quindi ledendo il significato complessivo. Una mossa esagerata, oltranzista, di cui lo stesso De Gregori chiederà scusa solo più in là, raccontando di non sapere cosa lo avesse preso.

Da qualche anno però l’aria sembra cambiata e in tanti se ne sono accorti, come testimonia una generosa intervista concessa a Malcom Pagani ad aprile, per il 74esimo compleanno dello stesso De Gregori, sul Foglio ‒ il solo fatto di aprirsi spesso a chiacchierate del genere, tra cui un’altra con il Corriere della Sera sul rapporto con la moglie, morta lo scorso anno, è indicativo. Quasi subito Pagani si chiede: “Francesco De Gregori è diventato definitivamente buono?”. E lui, ricordando Finestre rotte, risponde: “Ho sempre voluto essere una persona normale che pur facendo un mestiere pittoresco restava normale. Chi mi conosce lo ha capito. E se è vero che sono diventato più buono, anche gli altri sono diventati più buoni con me. Oggi do una stretta di mano e riesco a gestire il rapporto con chi mi incontra su un piano umano senza passare per il terribile tunnel del divismo”.

I fatti, in realtà, dicono di più. Il punto di svolta è stato due anni fa, quando dopo una serie infinita di rinvii per la pandemia è partito in tour con l’amico e forse rivale di sempre (anche qui, forse, non c’è niente da spiegare) Antonello Venditti. Avevano condiviso gli inizi da cantautori al Folk Studio negli anni settanta, ma poi si erano presto allontanati: entrambi sarebbero entrati bene nella cultura condivisa italiana, ma Venditti attraverso la strada del pop e degli inni da stadio, mentre De Gregori con una musica più raffinata (anche se anni dopo avrebbe ammesso che proprio l’inno è il pezzo che avrebbe voluto scrivere lui) e di difficile lettura. Ecco, riprendersi con l’altro la dimensione delle grandi arene e del karaoke collettivo, dando al pubblico esattamente ciò che vuole, cioè una raccolta dei classici e basta, senza neanche i riarrangiamenti sempre in stile Dylan di De Gregori, è il primo passo per prendersi davvero quella dimensione nazionalpopolare che aveva sempre accarezzato, ma in cui non era mai davvero entrato.

Il resto è un prendersi meno sul serio, dai recenti spot pubblicitari in cui si sente, per esempio, La storia ‒ una cosa impensabile, per il De Gregori integerrimo di appena dieci anni fa ‒ a Pastiche, il disco uscito in primavera con Checco Zalone, cantando in pezzi loro e di altri, tra cui Paolo Conte e lo stesso Venditti. Sono amici, la stima reciproca è nota da tempo così come il talento del comico come pianista, veste in cui è presente in tutte le canzoni (e mai come cantante). Ma più che un modo per legittimare le ambizioni di Zalone, che come musicista era attivo nel demenziale e comunque, per le commedie da record, non è mai dispiaciuto alla critica, l’operazione ha giovato a De Gregori, che ha aggiunto quel velo di autoironia nell’immaginario finora sempre assente.

L’ultimo passo, poi, risale all’estate che si è appena conclusa, con un tour in cui l’ha data vinta all’insistenza del pubblico cominciando a spiegare alcune canzoni misteriose, come L’uccisione di Babbo Natale. E le parole che ha usato hanno lasciato intendere che, sì, c’era molto da spiegare. E soprattutto hanno dato vita a un precedente relativamente pericoloso, che ora pende sul prossimo impegno: venti concerti dal 29 ottobre al Teatro Out Off di Milano, ogni sera diversi e per una platea sempre esigua, come impone la dimensione della location. Ci si aspetta un contatto intimo con il pubblico e, per la prima volta, tanto dialogo reciproco, magari qualche battuta, sicuramente molte spiegazioni (non ne ha fatto mistero). Che sia il battesimo definitivo del nuovo De Gregori?

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