Approfondimenti

Quando l’Italia scoprì la musica tropicale

Trombe, percussioni e sempreverde voglia di scappare - Così mambo, samba, calypso e latin jazz trasportarono il pubblico cinematografico fino ai Caraibi e al Sudamerica

  • 24 luglio, 11:00
308392.jpeg
Di: Patrizio Ruviglioni

L’espressione che rende meglio l’idea di come fossero molte colonne sonore dei film italiani degli anni sessanta è “paesaggi sonori”: sonorizzazioni composite e omogenee, che non rubano l’occhio se non nell’insieme, come un paesaggio visto dall’alto; al loro interno non succede niente ‒ è un moto perpetuo, mancano strofe, ritornelli, stacchi ‒ e infatti spesso rimandando alla musica per ambienti, ma con piccoli dettagli sullo sfondo, quasi impercettibili e fuoriposto, come personaggi ignari dello scenario a cui appartengono, che rivelano però il gusto per la stranezza e la cura degli autori. Sono i dettagli ad averle rese popolari in tutto il mondo con l’etichetta di library music, come un ampio catalogo di suoni sperimentali (c’è di tutto, è difficile stabilire coordinate) da avere a disposizione per puro ascolto. E per gli appassionati più hardcore, è la vera età dell’oro del genere.

In un contesto già così ricco, c’è stata una corrente dimenticata che per tutto il decennio ‒ l’ultimo, vero periodo di grandissima esposizione del cinema italiano ‒ ha attraversato film e composizioni in maniera contro-intuitiva, e che partendo da queste basi ha mischiato le carte e aperto la porta, seppur per poco, a un altro mondo. Se la chiave di volta, in origine, era stata il successo planetario di La dolce vita di Federico Fellini (1960), con l’Italia trasformata in stile di vita, intorno alcuni ex ragazzi di bottega che avevano appena finito di farsi le ossa negli studi di registrazione ibridavano quell’immaginario con l’altra dolce vita di allora: quella tropicale, tradotta in un’invasione di suoni e atmosfere che vanno dal mambo alla samba, dal calypso al latin jazz, tra Caraibi e Sudamerica.

I protagonisti di questa sbandata, che non avrebbe lasciato eredità, sono ascritti nella leggenda, sì, ma per opere più famose e tradizionali. C’è prima di tutto Ennio Morricone, che per I malamondo (un documentario di Paolo Cavara del 1964, sui baby-boomer dell’Europa di allora) firmò un pattern di marimba e fiati con poco a che fare con i protagonisti, ma si ricollega a una suggestione: la voglia di evasione di tanti ragazzi, il desiderio di prendersi il mondo. Si tratta, infatti, di brani evocativi, che raccontano un periodo storico in cui i tropici, intesi in maniera vaga, erano in parte inaccessibili se non attraverso l’immagine stessa che ne dava il cinema. Eppure, la sensibilità dei compositori in questione ha fatto in modo che non si cadesse nel cliché o nella semplificazione da cartolina, in anticipo di cinquant’anni sui discorsi sull’appropriazione culturale. Semmai, erano una rilettura all’italiana degli originali, nell’indifferenza della musica leggera di allora.

Le ragioni di questo innamoramento, infatti, vanno cercate fuori dalla hit parade, dove resteranno, e riguardano una fascinazione che aveva investito il paese ‒ in risposta alla Dolce vita, gli italiani cominciarono a idealizzare il mito della fuga nei tropici, con l’incursione di elementi esotici anche nel design e nell’architettura ‒ e il mecenatismo in cui si muovevano gli stessi autori. È paradossale: visto che a questi “paesaggi sonori era chiesto appena di fare ambiente, senza l’ambizione di guidare le pellicole, a chi ci lavorava, spesso inquadrati come impiegati attivati su commissione, venivano concesse una libertà e una possibilità di sperimentare difficili da immaginare oggi. Il risultato è simile a ciò che, dagli anni settanta, investirà le sigle dei cartoni animati: una prateria dov’era permesso di sfogare idee e passioni, senza pressioni.

Si spiega così un corpus tropicale con le lucide follie di istituzioni come Bruno Nicolai, Armando Trovajoli, con soluzioni in anticipo sui tempi, e Piero Piccioni, che tra i tanti scrisse Easy Calypso, cortocircuito di calypso caraibico inserito in Una vita violenta (1962), dramma ispirato all’omonimo romanzo di Pasolini. Perché i tropici avevano invaso le commedie come le opere impegnate di un Antonioni, spesso secondo associazione imprevedibili. E infatti l’uovo di colombo della faccenda è Piero Umiliani, un culto tra gli appassionati, capace di inserire elementi d’avanguardia jazz, lounge e appunto caraibici (la bossa nova di Che notte ragazzi!, tra le varie) in ogni sua opera, comprese le sigle degli spot con cui è diventato famoso e fino alla storica Mah Nà Mah Nà.

Piero Umiliani: il jazz non finisce mai

RSI Cultura 06.12.2000, 17:58

Oggi questa infatuazione è raccolta in una compilation appena uscita in Italia a cura di Cam Sugar, che ha pescato dal suo archivio 26 pezzi appartenenti alla corrente, di cui degli inediti, e s’intitola Tropicale – When La Dolce Vita discovered calypso, mambo, samba and other tropical rhythms (1959-1969). Tra trombe, percussioni e sempreverde voglia di scappare, più che un biglietto di sola andata per il Sudamerica, il disco è un viaggio nel tempo: ora che la musica latina è stata riproposta, in Italia, in chiave spesso industriale, fotocopiando il reggaeton, risentire le divagazioni tropicali serissime di un Morricone e di un Trovajoli, tra i vari, è un modo per ricordarsi che succede quando si dà, davvero, mano libera agli artisti.

L’indelebile primo rap di Pino D’Angiò

Un' ora per voi 21.07.2024, 13:00

  • Keystone

Correlati

Ti potrebbe interessare