Sanremo

Le piccole grandi storie di Sanremo

Le canzoni che hanno fatto il Festival della canzone italiana senza vincerlo

  • 14 febbraio, 12:22
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Il trofeo del Festival: il Leone di Sanremo

Di: Loris Prandi/Millestorie 

C’è chi lo ama da quando è entrato nella sua vita in una sera di qualche inverno fa, c’è chi lo odia da sempre e c’è chi nel corso degli anni ha cambiato idea. Il Festival di Sanremo, comunque la si pensi, resta l’evento più controverso del panorama musicale italiano. Un evento al quale sono legati numerosissimi aneddoti e curiosità. Alcuni ve li sveliamo prendendo spunto da cinque canzoni che hanno contribuito a fare la storia della kermesse nata nel 1951 con tre interpreti (Nilla Pizzi, il Duo Fasano e Achille Togliani) che quest’anno festeggia la 75esima edizione. Cinque canzoni iconiche ma non vincitrici: Su di noi di Pupo, L’immensità di Don Backy, Vado via di Drupi, Signor tenente di Giorgio Faletti e Morirò d’amore di Giuni Russo.

“Su di noi” - Pupo

Nel 1980 Enzo Ghinazzi è diventato Pupo, da pochissimi anni (un po’ controvoglia, poiché il nome d’arte si abbina a quello della Baby Records, la casa discografica che glielo ha imposto, ma non lo entusiasma) ed è fresco del primo grande successo, intitolato “Forse”, quando si presenta per la prima volta a Sanremo. Quell’edizione è ricchissima di esordienti (ventuno su trenta concorrenti) di cui il cantautore toscano sarà uno dei pochissimi a sfondare (tra gli altri, i Decibel di Enrico Ruggeri).

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Le piccole grandi storie di Sanremo: “Su di noi” - Pupo

Millestorie 10.02.2025, 11:45

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Quell’anno, per la prima e unica volta si impone Toto Cutugno, con “Solo noi”. Tutte le altre canzoni vengono dichiarate sul momento seconde a pari merito ma dopo il Festival “Sorrisi e Canzoni” pubblica la classifica delle prime tre, e sul podio, dietro a Cutugno ed Enzo Malepasso, ecco proprio Pupo, che deve buona parte di quel successo a una ragazzina. Donatella Milani, sedicenne che lo accompagna da un po’ come corista ma ama anche scrivere e cantare, gli punta sistematicamente il registratorino alla tempia durante le trasferte in auto per fargli sentire i propri lavori, finché un giorno Pupo inchioda in autostrada, si siede sul guard-rail ed esclama: “Questo è un pezzo forte!”


Tra i due sta nascendo qualcosa di sentimentale e anche grazie alla collaborazione di Paolo Barabani nascerà qualcosa di artistico. La sedicenne Donatella tre anni dopo arriverà a sua volta seconda sullo stesso palco con “Volevo dirti”, mentre la sua “Su di noi” è ancora oggi uno dei cavalli di battaglia di Pupo.

“L’immenistà” - Don Backy

Al di là di quelle rifatte, non sono molte le canzoni italiane che si ha la tendenza ad attribuire a due interpreti diversi: una famosa è certamente “Io camminerò”, che molti associano ad Umberto Tozzi e molti altri a Fausto Leali. Un’altra è “L’immensità”, portata in gara da Don Backy e Johnny Dorelli nel 1967, edizione ricordata soprattutto per la tragedia di Luigi Tenco. Un brano che Aldo Caponi – scampato al nome d’arte Cocco Bacillo che una volta entrato nel Clan voleva affibbiargli Adriano Celentano – scrisse con Detto Mariano pochi anni dopo aver adattato per il Molleggiato Standy By Me trasformandola in “Pregherò”. Il filone riecheggia ancora quello spirituale, è la storia di un uomo preso dallo sconforto che lo supera realizzando come la pioggia non porti solo malinconia ma anche linfa vitale per nuovi fiori che sbocceranno.

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Le piccole grandi storie di Sanremo: “L’immensità” - Don Backy

Millestorie 11.02.2025, 11:40

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La canzone porta anche la firma di Mogol, che stando a Don Backy si limitò a cambiare tre parole ininfluenti nel testo.


Dopo il suicidio di Tenco vi fu chi meditò di abbandonare il Festival ma Don Backy volle restare, non per mancanza di rispetto al collega ma per non perdere l’occasione. Il brano si classificò al nono posto ma vendette moltissimo; Johnny Dorelli lo ripropose a Canzonissima l’anno successivo, se ne fece un musicarello e nel corso degli anni fu rivisitato molte volte, anche da Mina.


Se in gara quell’anno c’erano anche stranieri di grande nome, come Dionne Warwick, Sonny & Cher e la recentemente scomparsa Marianne Faithfull, “L’immensità” rimarrà una delle cinque o sei canzoni di quell’edizione funesta ad aver resistito all’usura degli anni.

“Vado via” - Drupi

Non sono solo Zucchero e Vasco Rossi a essere arrivati ultimi al Festival per poi aver successo in seguito. Poco più di mezzo secolo fa la rassegna canora sembrava aver già scritto la parola fine alla carriera di un ragazzo di Pavia che suonava e cantava già da anni senza che – come racconta lui stesso - succedesse nulla, cosicché per campare continuava a fare l’idraulico. A Sanremo era arrivato quasi per caso: gli autori Albertelli e Riccardi avevano scritto un pezzo da far portare in gara a Mia Martini; serviva qualcuno che lo incidesse per farlo sentire a Mimì e in mancanza d’altri lo affidarono a lui. Poco prima del Festival però lei, punta di diamante della Ricordi, diede forfait. Panico nella casa discografica finché qualcuno suggerì di far cantare il brano al ragazzo che ne aveva fatto la demo, tale Giampiero Anelli, in arte Drupi, come il diavoletto interpretato in una recita scolastica.

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Le piccole grandi storie di Sanremo: “Vado via” - Drupi

Millestorie 12.02.2025, 11:40

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Alla giuria la voce un po’ roca e con sfumature soul di Drupi non piacque, o forse non piacque la canzone, intitolata Vado via, esclusa dalla finale, con l’interprete invitato a liberare la camera d’albergo già dopo l’esibizione del venerdì sera (nemmeno diffusa dalla RAI che si limitò a trasmettere l’ultima serata). Così Drupi il sabato tornò ad aggiustare tubi per guadagnarsi la pagnotta, mentre Peppino di Capri vinceva il Festival con Un grande amore e niente più e la sua Vado via cominciava una marcia trionfale che l’avrebbe portata a vendere nove milioni di copie (in Francia, ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove arrivò tra le prime cento in classifica) e ad essere incisa in 36 versioni diverse. Insomma, Drupi andò via, ma forse sarebbe stato giusto ascoltarlo anche in finale.

“Signor tenente” - Giorgio Faletti

Verso metà anni Novanta il Festival di Sanremo non è più da tempo incentrato unicamente su cuore-sole-amore. Si è già visto e sentito un po’ di tutto, anche in fatto di canzoni impegnate.

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Le piccole grandi storie di Sanremo: “Signor tenente” - Giorgio Faletti 

Millestorie 13.02.2025, 11:40

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  • Loris Prandi

Ma quando, nell’ultima settimana di febbraio del 1994, su quel palco sale Giorgio Faletti succede qualcosa di memorabile. Si replica su vasta scala quanto accaduto al momento in cui il 43enne astigiano aveva letto in anteprima al produttore Danilo Amerio i versi per un brano, e il giorno dell’audizione, quando Pippo Baudo aveva ascoltato quelle parole con la base musicale, e si era commosso. Nessun dubbio per il presentatore e neo-direttore artistico: quei versi, letti volutamente con inflessione siciliana, meritano la platea dell’Ariston.

Ma c’è un ostacolo: il regolamento impone almeno una parte cantata, che viene allora aggiunta come introduzione a un testo (quello di Signor tenente) che spiazza tutti. Faletti, fino a quel momento conosciuto come attore comico, ha sfoderato un’opera di bruciante attualità, e la interpreta con insospettato talento drammatico. Signor tenente è un omaggio alle forze dell’ordine, ai carabinieri vittime della mafia, come negli attentati di Capaci e di Via D’Amelio, costati la vita ai magistrati Falcone e Borsellino ma, come molti altri, anche a giovani servitori dello Stato in uniforme. La loro storia irrompe tra riflettori e paillette in un brano inconsueto, duro e poetico al tempo stesso, che nella storia del Festival farà .. storia a sé.

Una bomba metaforica contro le bombe vere. Tanto toccante che pur essendo totalmente fuori dagli schemi di Sanremo, per l’argomento che tratta, per la sua forma e per la sua interpretazione, arriva seconda. E ne è probabilmente la vincitrice morale.

“Morirò d’amore” - Giuni Russo

Incompresa. Questo fu Giuni Russo per buona parte della carriera. Il primo Sanremo nel 1968, soltanto sedicenne, senza successo. L’ultimo – dopo 35 anni e tanti no – nel 2003, troppo tardi, poiché quando risalì su quel palco era già molto malata, la sua testa calva lo testimoniava.

Lo fece con una canzone bocciata in precedenza ben due volte, scritta anni prima dalla sua compagna di una vita, Maria Antonietta Sisini e da Vania Magelli.

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Le piccole grandi storie di Sanremo: “Morirò d’amore” - Giuni Russo 

Millestorie 14.02.2025, 11:40

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Prigioniera dei suoi grandi successi balneari (Un’estate al mare e Alghero), l’artista siciliana anelava ad altro, e FECE altro (musica sperimentale, d’avanguardia, jazz, a respiro religioso), in gran parte però osteggiata da un’industria discografica che l’avrebbe voluta sempre cantante da spiaggia.

Aveva imboccato strade diverse, meditato più volte il ritiro.

Aveva abbracciato il misticismo e in particolare la figura di Santa Teresa d’Avila, e quel brano che faceva risaltare tutta la sua voce duttile, ipnotica, per qualcuno celestiale, suonava come una preghiera. Fece breccia. Si narra che durante quel Festival Caterina Caselli, emblema del potere dei discografici, andò a trovare Giuni Russo e la Sisini in albergo, chiese scusa per le incomprensioni del passato e l’incontro finì con un comune pianto liberatorio.

La voce ancora straordinaria colpì tutti ma l’ironia della sorte si ripeté: settima in classifica, alla canzone andò il premio per il migliore arrangiamento, di Roberto Colombo e Franco Battiato. Di premi Giuni Russo non ne vinse.

Gli acuti finali, un gioco per una che poteva raggiungere senza difficoltà le più alte tonalità dei gabbiani, sembravano avvicinarla al cielo che l’avrebbe accolta solo un anno più tardi.

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