Al netto della vittoria di Olly, del quale confesso ignoravo l’esistenza, è stato il Festival di Lucio Corsi, nato e cresciuto in quel posto selvatico che è la Maremma. Suona, scrive canzoni e licenzia dischi da una decina d’anni. Lo scorso autunno fu anche in concerto al Foce di Lugano. È stato il suo Festival, senza se e senza ma. Quello di un outsider che scompagina le carte. Un alieno, “L’uomo che cadde sulla Terra” per citare Bowie, uno dei riferimenti artistici a cui lo avvicinano. Con la forza della sua poetica impastata di profonda leggerezza, qualità autoriale, integrità e rispetto. Per sé stesso e per la musica. Nessun gossip ad accompagnarlo, nessuna attenzione mediatica esasperata, nessuna pletora di autori alle spalle. Musica, poesia, intelligenza emotiva e verità. E magia, tanta magia.
Ha vinto lui a prescindere, anche se della competizione in sé presumo non gliene importasse nulla. Ogni sua apparizione era uno schiaffo alle narrazioni malate che purtroppo accompagnano altre presenze in Riviera. Costruite sui like, gli streaming, l’hype, gli scandali, gli outfit, i “Collanagate”, la vita privata che diventa anche triste spettacolo sul quale banchettare.
Ecco, Lucio Corsi deve esser fatto di quella pasta che evoca Tricarico, sul palco con Gabbani, nella sua Io sono Francesco:
“Brilla brilla la scintilla brilla in fondo al mare
Venite bambini venite bambine e non lasciatela annegare
Prendetele la mano e portatela via lontano
E datele i baci e datele carezze e datele tutte le energie”
Quindi perdonami Olly, fresco trionfatore della kermesse; perdonami Clara, perdonatemi anche voi Sara e Gaia. Ignoravo il vostro transito terreno nel firmamento della canzonetta. Sono già pronto a masticare il loto per ripiombare nell’oblio, scordarvi. Altresì dimenticabile credo sarà il Festival. Nonostante i numeri da vertigine che la 75esima edizione ha macinato sera dopo sera. Indici da vertigine, da stappare casse di bollicine, a dimostrazione che il nazionalpopolare riproposto dall’ambrato Conti può funzionare ancora. Eccome se può funzionare, in quanto Sanremo rimane quel bene rifugio e consolatorio trasversale, bipartisan, ecumenico che accomuna sempre più classi sociali e anagrafiche soprattutto in epoche problematiche, difficili. Quasi il Festival congelasse la realtà, gli accadimenti della storia per calarci tutti in una bolla affrancata dal presente. Tragico o preoccupante che sia. E Conti lo sa. Ha inoltre evitato di proporre una mera playlist dei giovani più o meno sconosciuti ma cliccati e “streammati” all’inverosimile. Come per contro fece Amadeus. Ha derubricato quei “pipponi” spesso letali dalle scalette serali, e questo ha pagato. Ha azzeccato almeno un paio di “compagni di merende” sul palco, tra i quali Bianca Balti, pura energia vitale, e una fuoriclasse assoluta quale è Geppi Cucciari che, con un Benigni a mezzo servizio, hanno fatto il loro provocando qualche brivido al conduttore. Conti vanta un ritmo radiofonico: corre, scalpita, detta i tempi. È in gara contro il tempo. Coltiva un’avversione atavica per le pause, i contenuti extra musicali. Ciò lo rende apprezzabile per aver a cuore chi il giorno successivo si sveglia per recarsi al lavoro. E questo paga, come pagano le lacrime. E quanto si è pianto quest’anno a Sanremo! Michelin al termine della sua performance, Gerry Scotti, lo stesso Carlo, l’Ariston ad ogni comparsa di Cristicchi, piangono i bambini sul palco come Giorgia, entrata “papessa” e uscita con le ossa rotte.
Ci sarebbe da piangere per come cantano Lauro e Rkomi. Il primo, che si autodefinisce «un’opera d’arte vivente», è privo di quella ricchezza vocale e di quei talenti interpretativi adeguati non solo alla ballata romantica portata in scena a Sanremo. Rkomi invece è rimasto invischiato nel corsivoe; come allarga lui le vocali nessuno. La pagina 777 del Televideo aiuterebbe a render intellegibili le parole. E non solo le sue. Ma la dizione nel mainstream urban pop trap vattelapesca di oggi non ha diritto di cittadinanza. Ha pianto anche Fedez, che ne ha ben donde e per questioni che esulano dal Festival. Ci sarebbe invece da ridere al cospetto di Tony Effe, disastroso e inutile, urticante nel volersi profilar per quello che non è, e mai sarà. Capriccioso quando i solerti funzionari Rai sequestrano la collanina prima della diretta televisiva (pubblicità occulta applicata anche alle marche degli strumenti in scena). Tony “gnè gnè gnè” Effe li ha minacciati di ritirarsi, probabilmente invocando l’aiuto di “a mio cuggino”. E spero che dall’Oltretomba si presenti il Califfo, umiliato nella serata delle cover a gonfiarlo di sberle. Anche se la peggior cover della storia l’ha offerta Clara, coadiuvata da Il Volo. Ho anche sorriso leggendo l’astiosa l’analisi/sfogo di Morgan, che non poteva certo esimersi dal versare bile sul Festival; anche se qualche ragione come sempre ce l’ha.
Sta di fatto che le lacrime, l’esternazione pubblica delle emozioni sono merce preziosa. Incrementano i numeri degli ascolti e la raccolta pubblicitaria del prossimo anno. Quando anche la Rai dovrà guadagnarsi il diritto di continuare a organizzare il Festival.
E dunque Carlo Conti, mutuando l’arte del celebre maestro d’ascia e suo conterraneo Mastro Geppetto, ha piallato, smussato, levigato il Festival, spogliandolo da ogni ninnolo ornamentale, puntando sulla centralità delle canzoni, o sedicenti tali. Disinnescando possibili scandali e polemiche, limitando lo spettacolo. Ha prodotto un Festival in parte distopico. Invecchiandolo, rendendolo più ingessato e istituzionale. E castrandolo di alcune componenti utili alla sua narrazione. Un esercizio mirabile ma che al sottoscritto ha provocato una certa noia, trasformatasi in reiterati turbo abbiocchi sul divano. C’è più adrenalina negli episodi di Derrick che sul palco dell’Ariston, orfano di scossoni, invenzioni, colpi di scena: appunto, di spettacolo! Centellinato, sbucato a sprazzi con Jovanotti e i tellurici Rockin’1000 distribuiti nelle vie di Sanremo, o grazie all’indubbia classe e intelligenza interpretativa di Damiano David al servizio di una perla di Lucio Dalla. O ancora la contagiosa joie de vivre di una solare Balti, la cui raggiante bellezza vitale su quel palco era già il “messaggio”. Attendevo come molti i Duran Duran, attendevo il loro medley purtroppo funestato da un suono raccapricciante. Ma una spanna sopra tutto comunque. Come lo è stato l’ottimo e spettacolare medley di Mahmood. Attendevo ovviamente i concorrenti al varco per godermi qualche vertigine o inciampo e invece, ahimè anche le canzoni si sono rivelate mediamente mediocri. A volte inadatte all’interprete, altre fotocopie sbiadite di pagine già scritte, o semplicemente insipide e inutili. La cui liceità sul palco di Sanremo è davvero inspiegabile. Un’omologazione che pare non preoccupi.
E la musica dunque? Le canzoni selezionate da Conti sono state per lo più dimenticabili. Nonostante una presunta concentrazione di materia grigia autorale destinata inevitabilmente al livellamento verso il basso. Che perdura da anni. Quella alimentata dalla “casta” che si spartisce almeno un terzo delle scritture in gara. Ma ripeto, pare un problema risibile. Anche per le major discografiche, ree di complicità, esposto del Codacons a parte. Le uniche scintille le ho osservate grazie a una manciata di autori e interpreti affrancati dal resto della truppa e alieni alle logiche del Festival e del mainstream attuale. Corsi, Brunori e Cristicchi sui quali si son spesi fiumi di parole, anche a sproposito. Perché oltre ai gusti personali, che sono insindacabili, entrano in gioco l’orientamento politico della testata giornalistica di riferimento e le eventuali entrature con l’apparato. Cristicchi è stato “paraculo” nel portare una canzone, un recitativo che tocca un argomento come la malattia che inevitabilmente emoziona? La liceità della parentela con De Gregori per Brunori è evidente, è un suo punto di rifermento sul quale sarà cresciuto. Dunque? Aggiungo Willie Peyote, anche lui una spanna sopra quel “mucchione selvaggio” che scalpita e sgomita tra prodotti dei talent, antiche glorie, passaggi televisivi, album da promuovere.
Apprezzabile chi senza particolari velleità cavalca il Festival per altri fini. Vuoi per sfornare la nuova musichetta per TikTok (la Cuoricini dei Coma_Cose è imbattibile e garantirà loro il pagamento del mutuo senza patemi) e chi per dar la stura alla stagione dei tormentoni: i The Kolors sono maestri indiscussi del genere.
Bennato ci ha ricordato che sono solo canzonette, ma a Sanremo queste possono diventar altro, molto altro. Da messaggio politico a cibo che alimenta il sistema mediatico capillare, quello che vampirizza il Festival, in ogni suo anfratto, parola, respiro. Ma vuoi metter la goduria di trovare due “cantautori” sul podio di Sanremo (Corsi e Brunori Sas)? Per una notte significa anche la sconfitta dei prodotti in batteria, concepiti a tavolino da una pletora di soliti noti che opera negli allevamenti intensivi della canzone.
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