Quando si pensa all’industria musicale svizzera, volendo tracciare un confronto con altre realtà, un potenziale termine di paragone è la Svezia. Dimensioni diverse ma numero di abitanti simile, entrambi i paesi stanno al di fuori del circuito portante del pop-rock, quello angloamericano, così come da quelli rampanti come il K-pop sudcoreano. Entrambi però sono stati capaci di ritagliarsi i loro spazi nel grande bissinissi delle sette note. Certo, in Svezia sono nati gli Abba, vera e propria industria nell’industria, ma la nostra Elvezia ha saputo scrivere pagine di musica di buon riscontro internazionale.
Proprio da una carrellata di illustri musici svizzeri è voluto partire A mille ce n’è, servizio di Falò dedicato alla musica elvetica e ai suoi protagonisti. A cominciare dagli Yello, ossia l’eccentrico milionario Dieter Meier e Boris Blank. Il duo ha contribuito a tracciare la via del synth-pop negli Ottanta e ancora oggi fa sentire la sua influenza nella techno. Per la sezione “Premi e riconoscimenti”, ecco il Grammy all’arpista Andreas Vollenweider (1987) e i buoni risultati nelle classifiche internazionali dei Double con The Captain of Her Heart (1985). Successo internazionale raggiunto anche dalla canadese Céline Dion, la cui carriera fu lanciata da un brano di cui è coautrice Nella Martinetti, autentica gloria della musica ticinese. Una storia di successo che si sarebbe rinnovata a tempo di mambo con il chihuahua di Dj Bobo. E vogliamo parlare del Ballo del qua qua? Certo che sì.
Non ci sono solo i suoni educati del pop a rappresentare la musica svizzera nel mondo. Perché a metà degli anni Settanta nascevano i Krokus, band hard rock fondata da Chris von Rohr, che in seguito avrebbe aiutato i Gotthard a impostare la loro ottima carriera in qualità di produttore.
Sempre nella sezione “Sonorità dure”, ma in ambienti più sotterranei, non si possono non fare i nomi degli Young Gods di Franz Treichler, padrini del rock industriale riveriti in tutto il mondo, e dei metallari Celtic Frost, i cui album sono citati tra le fonti da cui trassero ispirazione i Nirvana per il loro album epocale Nevermind.
C’è la leggenda e poi c’è la realtà. Quella dei musicisti svizzero italiani che si fanno onore sui palchi internazionali. E che, come il chitarrista Jgor Gianola, hanno tante storie da condividere. Lui è fondatore della band hard rock Alto Voltaggio e in curriculum ha esperienze con Gotthard e UDO. «Al contrario di quello che si può pensare, è una vita molto faticosa. Difficilmente lo sforzo profuso è proporzionale al guadagno». Descrive così, Gianola, attingendo al suo vissuto, il mestiere del musicista, «Non c’è solo uno sforzo enorme per raggiungere un obiettivo economico ma c’è anche un sacrificio a livello di vita personale, perché è un po’ una vita da nomade».
Suonare diventa un lavoro vero e proprio quando si raggiungono certi risultati, certo, ma non è che dal momento che entri nel mondo della musica come professionista ti si spalancheranno le porte della ricchezza o il baratro della fame. Ci sono varie gradazioni di successo e combinazioni di carriera. Al mestiere di musicista, Gianola affianca quello di fonico, così da poter far fronte ai momenti meno brillanti, inevitabili lungo una carriera artistica. Non è però solo una questione di sicurezza finanziaria. Non dover dipendere dall’arte, spiega, significa potersi dedicare a essa senza avere «gli occhi tristi» di quei colleghi che come unico lavoro fanno musica. Per loro suonare è diventata una cosa che devi fare. E addio divertimento.
Rispetto alla Svizzera italiana come valido trampolino di lancio per aspiranti musicisti, Gianola ha una visione positiva: «Secondo me offre le stesse possibilità che offre qualsiasi luogo. Anche perché soprattutto oggi la musica scorre su canali digitali, per cui la distanza è praticamente annullata. Se c’è quella fiamma, è meglio seguirla che cercare di spegnerla».
Una fiamma che Kety Fusco non ha certo intenzione di soffocare. Arpista, abita a San Bernardino ma ha già viaggiato col suo strumento in giro per le grandi capitali europee. Di recente anche a Sanremo, capitale pro tempore della musica italiana nei giorni del Festival. La sua formazione musicale inizia in conservatorio all’età di undici anni. «Sono sempre stata molto ribelle» ricorda, «Ho cercato altre sonorità e un modo diverso di suonare l’arpa». Se però si vuole far conoscere la propria arte e con essa guadagnarsi da vivere, il talento e l’estro vanno accompagnati con doti gestionali: «Sono partita nel mio piccolo a farmi la mia agenzia di booking: trovavo io i miei concerti. Concerti piccolini in Ticino e poi in Italia». Di lì a poco il grande salto: «Poi mi hanno conosciuto le label e mi hanno spinta. Grazie a questo, ho potuto iniziare a fare concerti di un livello più interessante». Ha preso parte al Global Festival of Action, sostenuto dalle Nazioni unite, è stata ospite del Montreux Jazz e del Paléo di Nyon, si è esibita a Vienna, Parigi e alla Royal Albert Hall di Londra. Esperienza, quest’ultima, che nel rievocarla ancora la emoziona.
Dicevamo del sapersi amministrare la carriera. Anche concretamente. «La cosa più difficile è che per tanto tempo mi sentivo una “superwoman” e volevo fare tutto da sola» rammenta Fusco, che elenca i rischi corsi, tra cui quello di fare incidenti guidando per ore da un concerto all’altro. «Ormai il musicista è anche imprenditore» riflette, «Ho dovuto imparare a fare un dossier, consuntivi, calcoli difficilissimi per avere finanziamenti. Altrimenti è difficile fare questo mestiere». Ha trovato un compromesso chiedendo aiuto a una figura manageriale, così da «potermi dedicare di più al mio vero lavoro, cioè suonare».
Il giro di testimonianze si conclude con i fratelli Gabriel e Ivan Broggini, meglio noti come Sinplus. Vincitori di un Mtv Award (2014), hanno suonato sulla mitica Isola di Wight e aperto per Roxette, Europe e Mando Diao (a proposito di Svezia). «Siamo il classico caso di band che ha fatto un evento molto grande, l’Eurovision, finito il quale siamo letteralmente stati assaltati da etichette, major e indipendenti» così Gabriel descrive la band e il momento del salto di qualità. Fra le proposte ricevute scelsero quella di una major «perché per noi era un sogno». Oggi preferiscono fare da soli: hanno strutturato il “sistema-band”, una specie di società che ruota attorno ai Sinplus. Una squadra di supporto al gruppo in tutti gli aspetti che ruotano attorno alla sua musica, a partire da quelli legali.
Ivan vede la carriera come una salita verso la vetta: «Stiamo scalando questa montagna. Nessuno sa quanto è alta e quanto tempo ci vorrà ma noi lo vogliamo». E conclude: «Gli obiettivi sono tanti, è difficile dirne uno. Già il fatto che facciamo quello che ci piace e il legame si è rafforzato negli anni è la cosa più importante di tutte».