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Kid Yugi, il confine tra arte e rap

La nuova promessa (mantenuta) del rap italiano

  • 10.03.2024, 10:13
  • 10.03.2024, 10:13
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Di: Pablo Creti 

Ci sbilanciamo, ma vogliamo subito dire, senza troppi giri di parole, che Kid Yugi verrà considerato uno spartiacque nella storia della musica italiana e forse non solo di quella rap, una scena che negli ultimi anni ha attirato a sè milioni di ascoltatori, follower, fan, adepti… insomma definiteli come meglio credete e come meglio pensiate si adatti ai tempi. Nel bene e nel male, visto che un certo appiattimento culturale, di sonorità, di testi e di visione generale di quella che è prima di tutto una forma di espressione e comunicazione è sicuramente sotto gli occhi di tutti, con poche (ottime) eccezioni. E forse una parte di questo appiattimento è anche da ricondurre al fenomeno trap che, nonostante delle implicazioni sociali e artistiche interessanti e da non trascurare, ha fatto credere a troppe persone che il diventare famoso con la musica fosse alla portata di tutti, purtroppo anche a chi non ha nulla da dire, cosa che ontologicamente fa a pugni con un genere in cui la parola è il nodo principale, la sfera del drago, il sacro Graal da maneggiare con cura e grande consapevolezza.

Siamo a questo punto, in questo momento storico e questa è la prima premessa da cui vogliamo partire dopo aver ascoltato la nuova uscita di Kid Yugi, una delle più promettenti penne della scena rap emergente italiana.

Seconda premessa. Non (e sottolineiamo due o tre volte questo non) vogliamo che questo articolo possa essere preso come un applauso acritico a un progetto che è destinato a far discutere per la sua complessità, per la sua natura provocatoria, estrema e disturbante a partire dal titolo: “I nomi del diavolo”.

Già perché quello di Kid Yugi è un manifesto di un disagio profondo, una testimonianza del degrado sociale che costringe tanti giovani (e non solo) a guardare negli occhi l’abisso e a confrontarsi con i propri demoni ogni giorno, spesso uscendone sconfitti anche per colpa di un peso esistenziale che vanifica sforzi e buoni propositi. Incomunicabilità del e col mondo. E che un ragazzo di 23 anni decida di trasformare questa incomunicabilità in un progetto musicale che fa della parola (e l’uso forte e senza filtri che se ne può fare) il suo strumento primario è già un primo importante spunto di riflessione.

Sgombriamo il campo dal dubbio, di satanico non c’è nulla (nonostante titolo, concept e immagine possano facilmente farlo pensare) nel lavoro di Kid Yugi. Sicuramente, però, c’è una forte componente esoterica nel suo senso etimologico di esṓteros (interiore), contrapposto a exoteros (esteriore). E sicuramente ci sono forti, pesanti, disturbanti critiche a tutto: al mondo, al mondo del rap, alla politica, al corso della storia, all’impossibilità di cambiare le carte in tavola, alle istituzioni, al doversi adeguare e convivere con situazioni che portano all’abbattimento di ogni valore, ai valori stessi. È un grido di (non) sopravvivenza quello che lancia Francesco Stasi (questo il vero nome del rapper pugliese) non risparmiando nulla; la sua penna è un bulldozer che lascia solo macerie dopo il suo passaggio. Macerie che sono, quasi poeticamente, un ricordo del paesaggio brutto, brutale e desolante che c’era prima, ma che rimane brutto, brutale e desolante anche dopo.

A colpire di Kid Yugi, in un momento in cui, come dicevamo all’inizio, la parola nel rap sembra essere (stata) svuotata di ogni sua forza, è la scrittura che si fa arte nel senso più disturbante e sensibile del termine, nel suo essere espressione di un’anima (quella dell’artista) che vede il mondo con un grado di complessità maggiore, con tutte le sfumature che sfuggono a chi non ha quella capacità di scavare nella propria emotività anche quando questa può far emergere pensieri borderline, spaventosi, pericolosi anche solo da catturare, figurarsi da scrivere e poi cantare.

Un pugno nello stomaco è forse una frase troppo fatta quando si tratta di canzoni, ma è letteralmente la sensazione che si prova dopo l’ascolto dei 14 pezzi che compongono il diavolo che Kid Yugi ha descritto, vivisezionato e ricomposto per l’ascoltatore. Un lavoro fatto di citazioni letterarie, filosofiche, cinematografiche, teatrali che formano un puzzle complicato da ricomporre e che chiede tanto all’ascoltatore per essere compreso, assimilato e digerito. È un atto coraggioso, perché riporta l’arte del rap a una dimensione più alta in cui le parole e le frasi devono essere decifrate, interpretate, analizzate e non lasciate scorrere in maniera disattenta. Bisogna tornarci più e più volte e lo si può fare anche grazie al fatto che Kid Yugi non ha lasciato nulla al caso, comprese le produzioni musicali potenti, coinvolgenti e molto “americane” (i riferimenti vanno dall’old school fino alle nuove tendenze del sud degli USA) che sdoganano un altro tassello importante che, forse, mancava nel rap italiano.

Manifesto di questo lavoro sono due pezzi in particolare. “Ilva”, che, considerata anche la provenienza tarantina di Kid Yugi, è un atto di denuncia politica e sociale come non se sentivano da anni nei confronti delle istituzioni italiane. Una vera e propria canzone “armata” che riporta il rap alle sue origini e al farsi voce di chi voce non la può avere. E qui a una penna senza sconti si accompagnano anche le sonorità reggae, di cui la Puglia è fiera terra madre in Italia, usato e decostruito alla perfezione per servire (è proprio il caso di dirlo) (al)la causa. Quasi un ossimoro musicale, che, però, funziona alla grande. “Lucifero”, poi, è un vero e proprio diario in cui Kid Yugi mette a nudo se stesso, il suo (non) essere artista e le sue (non) motivazioni per scrivere e fare musica. Un cinico ritratto di un ragazzo che racconta le sue fragilità, la difficoltà di avere e non avere delle aspirazioni, di affrontare il dolore o di arrendersi a esso, di essere soli anche quando si è circondati da amici e affetti. Parla, in maniera brutalmente onesta, di demoni impossibili da sopportare, destinati in ogni caso a vincere e a trascinarti nell’abisso.

Lo ribadiamo, non è un lavoro semplice quello di Kid Yugi. Non è una playlist di Spotify da ascoltarsi serenamente in macchina o sul treno. Non è una sequenza di canzoni che lasciano indifferenti, senza reazioni. E non è neanche un qualcosa da applaudire e accogliere a prescindere senza una riflessione più profonda. Anzi, la sensazione straniante e contrastante del ritrovarti paradossalmente così bene all’interno della sofferenza e della forza di alcune frasi e poi in totale disarmonia (e anche in totale disaccordo, addirittura disturbato e intimorito) con altre parti della stessa canzone è un qualcosa che va compreso e metabolizzato. Sono parole spesso violente che dividono e divideranno. Ma il lavoro, nel suo complesso, riesce sicuramente a far riflettere sulla società, sullo stato della musica e dell’arte e sul senso stesso di farne veicolo di comunicazione. C’è un significato dietro a tutto questo dolore e questo è già un punto fondamentale da segnare in un genere che oggi ha bisogno più che mai di nuovi riferimenti forti. “I nomi del diavolo” è un album spaventosamente introspettivo che riflette però paradossi e disagi in cui tutti possono trovare frammenti dei propri sentimenti, pensieri e riflessioni. Cose che possono farci paura anche e soprattutto quando le riconosciamo e le associamo a quella parte più oscura di noi con cui abbiamo timore di dialogare. Non ha avuto paura di farlo Kid Yugi e lo specchio che ci mette davanti è allo stesso tempo realistico e deformante. E in un momento storico in cui il rap italiano ha un bisogno assoluto di non lasciarsi trascinare nella ripetizione di cliché o di essere ancora svuotato dei suoi significati, quella di Kid Yugi è una voce dissonante che difficilmente passerà inascoltata.

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Annoiarsi con la musica?

Voi che sapete... 05.03.2024, 10:00

  • iStock
  • Martino Donth e Giovanni Conti

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