Nella sua epoca d’oro, gli anni Zero, il soprannome con cui veniva inquadrato Bugo era “Beck delle risaie”, un riferimento al cantautore statunitense di Loser – la capacità di spaziare tra i generi, lo-fi compreso, e l’attitudine matta e irregolare, però non maledetta, solo felicemente perdente – e alla provenienza geografica dello stesso Cristian Bugatti, classe 1973 da Cerano, provincia di Novara. Come sempre, per chi fa musica in Italia la provincia è collegata allo stesso concetto: non avere aspettative né niente da perdere, ma tutto da conquistare. E così effettivamente sarebbe stato. Lui, nel dubbio, ha sempre odiato quell’etichetta, a prova di una carriera spesa a voler prendere di petto, sorprendere e spiazzare gli spettatori, a non accontentarli.
Bugo dice addio (Radio Monnezza, Rete Tre)
RSI Cultura 31.03.2025, 20:00
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Un approccio che dopo vent’anni, dieci dischi in studio e due partecipazioni al Festival di Sanremo (2020 e 2021), si è tradotto in un’altra scelta radicale: ritirarsi con un ultimo concerto in programma questa sera all’Alcatraz di Milano (non è un pesce d’aprile, giura), poi più niente, neanche un profilo social da cui continuare a seguirlo. Il motivo, ripete, dietro quest’idea che covava da tempo – e che, nella musica italiana, non è diffusa, visto che i tour “best of” raccolgono ottimi numeri – è la mancanza d’ispirazione, non avere più niente da dire.
L’impressione è anche che non si sia mai ripreso dalla prima volta all’Ariston, quella del duetto con Morgan in Sincero, suo malgrado virale per come l’ex Bluvertigo l’ha insultato live, cambiandone il testo e facendoli, di fatto, squalificare entrambi. Bugo, che lì per lì aveva abbandonato il palco, in uno dei momenti cult della tv italiana degli ultimi anni, ha parlato più volte di “bullismo” e di come l’opinione pubblica sia stata insensibile al dolore. In generale, già in quella che allora sembrava un’operazione di rilancio – lui sostiene di aver sempre pensato a Sanremo proprio come ultimo giro prima di chiudere: ma non è detto che le due cose non possano andare d’accordo – la sua stella si era spenta. Eppure, al di là del meme che l’ha investito, negli anni Zero è stato uno degli artisti chiave della musica italiana. Basti pensare all’altro nome con cui era conosciuto (e che apprezzava), “il fantautore”: le definizioni gli sono sempre strette, ma era lì la sua forza.
Forse sarebbe dovuto andare in Riviera dieci anni prima, ma era un altro momento storico. Di più: la rivoluzione che ha portato al cambio della guardia attuale e al nuovo cantautorato, di cui anche il podio di Sanremo è espressione, è cominciata da lui. Non è assurdo, ecco, pensare a Bugo come a un “nonno” dello stesso Lucio Corsi, per la breccia che ha aperto. Si era fatto conoscere per lo più nell’underground, infatti, intorno al 2000, con due dischi molto chiacchierati e che oggi restano tra i suoi migliori, La prima gratta (2000) e Sentimento esternato (2001). Approfittando di un generale interesse per il rock in italiano (era il periodo di C.S.I., Subsonica, Afterhours), aveva però preso la strada a modo proprio, pescando da lì quanto da Battisti – da subito ha dimostrato un senso per la melodia e gli incisi notevoli – e dal folk americano, con uno spirito, appunto, à la Beck. Erano due album, questi, lo-fi, di bassa qualità audio, con pezzi che a volte sembrano quasi provini, ma pieni di idee fulminanti, passaggi allucinati, veri colpi di genio con tono disincantato. In un momento intermittente per il cantautorato italiano, con i vari Daniele Silvestri e Carmen Consoli per lo più nel mainstream, Bugo di fatto ha aperto la porta alternativa, che avrebbe poi portato al Paolo Benvegnù solista (2004) ai vari Dente e Brunori Sas (2009), quindi in parte perfino a Calcutta (con cui peraltro condivide lo stile volutamente “strambo”) e a Lucio Corsi.
A testimonianza, però, che non era un caso, di lì a poco avrebbe firmato addirittura per una major, la Universal, un salto che avrebbe potuto essere fatale, passando dagli esordi sghembi e freschi, chitarra e voce, di brani come Vorrei avere un dio e Spermatozoi, al risultato più compiuto che gli avrebbe imposto una grande etichetta. E invece, sfruttando la potenzialità di mezzi a disposizione, si sarebbe imposto autore di punta del pop “altro” italiano: l’esordio al grande pubblico, Dal lofai al cisei (2002), vanta tra gli altri l’inno da outsider Casalingo, ode allo stare a casa; il doppio Golia & Melchiorre (2004), nel suo “lato” acustico, è tra i migliori dischi folk italiani, con ballate come Che diritti ho su di te e Rimbambito, dove lo stile-Bugo (lento, stralunato, irregolare, per questo puro) non viene mai meno; Contatti (2008) è la sua opera più riuscita, quella che grazie ad arrangiamenti più elettronici gli garantirà passaggi in radio e in tv con il singolo C’è crisi, un risultato impensabile per tanti colleghi alternativi, che in qualche modo lo spingono su un campionato diverso.
Si è spento sul più bello, perché già da Nuovi rimedi per la miopia (2011) i conti hanno cominciato a non tornare, con una musica meno ispirata – e qui è lui stesso a parlare di un calo, da cui forse non si è mai ripreso – ma soprattutto “normalizzata”: canzoni su amore, vita e provincia tradizionali, senza colpi tipici come le frasi non-sense o l’approccio scalcinato che l’avevano benedetto. Forse Bugo aveva deciso di uscire dal limbo in cui si trovava – né underground, né mainstream – per abbracciare il mondo “dei grandi”, con cui però, come si vedrà a Sanremo, non poteva scattare la scintilla. Non avrebbe potuto, quasi, neanche essere capito: non era il suo mondo.
In mezzo, sempre meno album (per il successivo Nessuna scala da salire bisogna aspettare il 2016) e sempre meno ispirati, in un momento invece di grande esposizione per i cantautori della generazione immediatamente successiva, da Calcutta in giù. La latitanza in un momento cruciale come quello, oltre alla sua legittima voglia di non essere ascritto a quella scena, gli hanno impedito di esserne riconosciuto come un “padre”. L’essersi appiattito su una musica ordinaria dall’altro lato, insieme ai Sanremo non memorabili, non l’ha fatto conservare come un artista di culto. Ma, ecco, il suo ritiro ricorda comunque quanto Bugo sia un artista diverso dagli altri, anche a proprie spese.