Il Giorno della memoria, nonostante la volontà delle organizzazioni umanitarie internazionali e della società civile di tenere viva la memoria dell’Olocausto come preghiera, ammonimento, diffida per le generazioni presenti e future, quest’anno ma non solo, si è celebrato in un mondo dove questa liturgia laica, tanto più viene ritualizzata, o addirittura “consumata”, tanto più sembra cadere nel vuoto a fronte del dilagare di nuove, efferate diffuse forme di bellicismo, regolarmente giustificate da una propaganda mediatica che alimenta e accresce in larghi settori dell’opinione pubblica allarme, ostilità, odio di squisita natura razzista o quantomeno sciovinista. In una prospettiva storica ampia, plurisecolare e planetaria, la mostruosa eccezionalità della Shoah si colloca in un panorama costellato ieri come oggi di immani genocidi e tragedie, spesso dimenticate o addirittura negate.
Ma c’è qualcosa d’altro che rende la Shoah qualcosa di unico e orrido anche dal punto di vista culturale e filosofico. Un aspetto forse meno significativo per chi non è sensibile a questioni culturali, ma raccapricciante per chi nutre l’idea della civiltà umana come edificio fondato su un immenso, ultramillenario patrimonio di arti e cultura. In questa prospettiva la Shoah diviene un atto d’accusa contro questo patrimonio, dal cui cuore la Shoah stessa è scaturita. E la questione riguarda in primis proprio la musica. Come ha scritto lo scrittore francese Pascal Quignard «Tra tutte le arti, la musica è l’unica ad aver concorso allo sterminio degli ebrei organizzato dai tedeschi fra il 1933 e il 1945». È una provocazione, ma tocca il centro di un interrogativo drammatico attorno al quale ruota un volume meritevole di essere riletto: Musica per l’abisso di Leonardo Distaso e Ruggero Taradel (Mimesis). Sottotitolo: La via di Terezín. Un’indagine storica ed estetica 1933-1945.