Conosciamo bene le discriminazioni che subiscono le donne dopo essere diventate madri, soprattutto sul lavoro: minori opportunità di carriera, salari più bassi, stereotipi sulla loro produttività e le loro priorità. In inglese hanno un nome specifico: motherhood penalty (“penalità della maternità”). Meno noto, invece, è il fenomeno opposto: gli uomini, dopo essere diventati padri, ricevono spesso benefici come aumenti di stipendio e una maggiore considerazione professionale, perché percepiti come più stabili e affidabili.
Ma vengono anche rivestiti di un’aura di santità non appena esprimono i più basilari segnali di affezione nei confronti della loro prole o di cura nei confronti della famiglia. Questo effetto è noto come fatherhood bonus o premium (“premio della paternità”).
Questi fenomeni sono il risultato di stereotipi di genere radicati, che associano la cura dei figli principalmente alle donne e la necessità di provvedere a una stabilità economica famigliare agli uomini. Uno studio di Claudia Goldin, Sari Pekkala Kerr e Claudia Olivetti mostra come le donne, dopo il primo figlio (e ancora di più dopo il secondo), siano spesso costrette a ridurre le ore di lavoro, prendere congedi più lunghi o interrompere temporaneamente la carriera (When the Kids Grow Up: Women’s Employment and Earnings across the Family Cycle, in «NBER Working Paper», vol. 30323, 2022). Al contrario gli uomini, una volta diventati padri, vedono aumentare i propri guadagni perché «hanno una famiglia da mantenere», e vengono percepiti come più affidabili e ambiziosi. Questo squilibrio si è accentuato durante la pandemia di COVID-19 (Felipe A. Dias, Joseph Chance e Arianna Buchanan, The Motherhood Penalty and the Fatherhood Premium in Employment During COVID-19: Evidence from the United States, in «Research in Social Stratification and Mobility», vol. 69, 2020): «Credenze culturali che vedono le madri come principali caregiver e i padri come principali percettori di reddito potrebbero influenzare le decisioni dei datori di lavoro» (traduzione mia).
https://rsi.cue.rsi.ch/info/svizzera/Maternit%C3%A0-e-ritorno-al-lavoro-le-richieste-di-Travail.Suisse--2188577.html
Insomma: il divario di genere tra donne e uomini persiste, come dimostrano gli ultimi dati dell’Inps, per l’Italia (Rendiconto di genere 2024: i dati, 2025) e quelli dell’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo, per la Svizzera (Disparità salariale, dati aggiornati al 2024). E si accentua se entrano in gioco la maternità e la paternità. In Svizzera, ogni anno, fra le 9.000 e le 12.000 neomadri dopo il parto non tornano al lavoro, contro la loro volontà (Maternità e ritorno al lavoro: le richieste di Travail.Suisse, in «RSI», 2024).
Quando i figli crescono e diventano più indipendenti, le madri aumentano gradualmente le loro ore di lavoro e i loro guadagni. Le madri laureate e con carriere consolidate tendono a recuperare più velocemente rispetto alle madri con livelli di istruzione più bassi (Goldin, Pekkala Kerr e Olivetti, 2022).
https://rsi.cue.rsi.ch/info/dialogo/La-varia-percezione-dell%E2%80%99uguaglianza-in-Svizzera--2089720.html
Dopo Sanremo, mi ha colpito un post su Instagram di Sasha Damiani, «medica infastidita dalla retorica sulla maternità» e autrice del progetto Mamme a nudo. Damiani si è chiesta come mai, in Italia, proliferino canzoni di padri che parlano della loro prole (da Brunori Sas a Baglioni, passando per Jovanotti, Concato, Vecchioni, Fossati, Grignani, Britti, Ramazzotti, e la lista non si esaurisce qui, come nota Damiani). Si contano invece sulle dita di una mano le donne che raccontano la loro maternità. A memoria, lei ricorda Elisa e Nannini. Io ho fatto una piccola ricerca, e sono riuscita ad aggiungere Levante e Pausini. «Un padre visibilmente emozionato per il proprio figlio è tenero, sensibile, stra-ordinario,» commenta. «Una donna che parla di maternità? Normalissima». Sono interessanti i commenti al post, principalmente di donne, che provano a trovare delle ragioni di questo fenomeno. Le ipotesi sono tante: perché se le donne parlano di maternità rischiano di essere percepite come noiose o poco professionali; perché gli uomini vivono meno la quotidianità della prole, e quindi idealizzano maggiormente la genitorialità; perché una donna che parla dei figli è «una che parla sempre dei figli».
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/societa/Maternit%C3%A0-Serve-un-linguaggio-nuovo--2112835.html
La verità è che non si fa che dire che la maternità è un’esperienza insostituibile, un’opportunità di crescita personale ma anche professionale, perché con la maternità si sviluppano competenze chiave come l’ascolto, la gestione delle difficoltà e la rapidità decisionale, fondamentali per la leadership. Ci hanno scritto un libro, per esempio, Andrea Vitullo e Riccarda Zezza (MAAM – La maternità è un master, BUR, 2014). Ma le aziende e la società non si comportano affatto di conseguenza.
Ilaria Maria Dondi ricorda: «La maternità costituisce per le donne spesso un limite, che è importante imparare a guardare secondo una precisa visione d’insieme. Per molte non si tratta “solo” di dover rinunciare al lavoro o a un lavoro a tempo pieno (e quindi allo stipendio, o a una sua parte); oppure rinunciare ad avanzamenti di carriera e a un miglioramento del proprio status sociale. [...] Si tratta di tirare le somme di tutto e comprendere il costo finale che molte, troppe, pagano, in termini di tassi elevati di povertà in età pensionabile, di dipendenza finanziaria e, quindi, di esposizione alla violenza di genere, laddove l’indipendenza economica è il biglietto per la libertà senza il quale molte donne, specie se in presenza di figli, restano con il partner abusante» (Libere di scegliere se e come avere figli, Einaudi, 2024).
Nel 2025 possiamo ancora accettare che la genitorialità sia un ostacolo per le donne e un merito per gli uomini? Non basta riconoscere il problema: servono politiche e cambiamenti concreti per garantire pari opportunità a tutti i genitori.