Iman Mahmoud Laila, 18 mesi, è morta di freddo vicino al campo profughi di Idlib, l'ultima provincia in Siria nelle mani dei ribelli. La piccola è diventata il simbolo di una catastrofe umanitaria, l'ennesima, nella quale muoiono continuamente altri bambini come lei e intere famiglie. Ad Idlib le temperature sono rigide, nevica e non ci sono tende per tutti. E da settimane i caccia di Mosca e i cannoni di Damasco bombardano la zona.
Gli attacchi seguono un ordine cronologico preciso: prima gli aerei russi sganciano le bombe. Poi arrivano le raffiche dei soldati del regime siriano. A caccia dei ribelli rimasti e degli jihadisti ancora legati ad Al Qaida. È da novembre che va avanti così. E in mezzo adesso si sono aggiunti anche 9'000 militari turchi, che combattono sia contro i siriani sia contro i russi. Macerie, sangue e urla è quel che resta dopo ogni offensiva.
Alternative alla fuga? Nessuna: la gente di Idlib non la vuole nessuno. E la gente di Idlib, in un modo o nell'altro tradita da tutti, non può scegliere nessuno: né il regime di Assad, né i ribelli, né al Qaida. Tantomeno i russi o i turchi. Scappa senza sapere dove andare. Finisce negli unici luoghi possibili, i campi profughi sparsi nella regione, nella siria nord-occidentale: 700mila sfollati, un quarto della popolazione. Una fuga di massa, come raramente se ne sono viste. Per l'80% donne e bambini. E tanti di loro muoiono. Di fame, di freddo. Una catastrofe umanitaria annunciata, prevista, e lasciata arrivare.
ONU e ONG (organizzazioni non governative) chiedono il cessate il fuoco. Russia e Turchia hanno annunciato un incontro nei prossimi giorni. Troppo tardi per molti sfollati: troppo tardi anche per Iman, morta di freddo venerdì mattina fra le braccia del padre che stava cercando di raggiungere un ospedale a piedi, a tre ore dal campo profughi in cui aveva cercato la salvezza.
La dura vita di Idlib
Telegiornale 15.02.2020, 21:00