Sono trascorsi due mesi dalla scomparsa di Mahsa Amini, la studentessa uccisa a percosse dopo il suo arresto da parte della polizia morale iraniana, per non aver indossato appropriatamente il velo islamico. La morte della 22enne ha innescato in Iran un movimento di protesta senza precedenti, e in un clima ormai di aperta sfida al regime. Sui social continuano ad affluire immagini e video su moti di piazza, immagini della Guida suprema Ali Khamenei date pubblicamente alle fiamme, giovani dimostranti che strappano il turbante ai religiosi. E la protesta non si placa neppure dopo una violenta reazione delle autorità che, secondo quanto riferito da più fonti, è finora costata la vita a quasi 350 persone. Ma quali sbocchi possono realisticamente avere questi moti, in un Paese che continua a essere guidato col pugno di ferro?
Tre livelli di crisi
La Repubblica islamica, va precisato, non è certo nuova a dimostrazioni di protesta. Quelle attuali hanno però assunto un'estensione del tutto clamorosa e con caratteristiche che le differenziano sensibilmente da quelle degli anni passati. Ben le sottolinea Riccardo Redaelli, docente universitario alla Cattolica di Milano e direttore del Centro di ricerche sul sistema sud e il Mediterraneo allargato (CRiSSMA), che ha sede presso lo stesso ateneo. In Iran, ci spiega, è ormai in atto una crisi che si sostanzia a più livelli. Sul piano politico essa "è data dal fatto che, in passato, il sistema di potere tollerava una certa opposizione o diversità" di linea, rappresentata da "riformisti, pragmatici e tecnocrati". In precedenza, insomma, chi intendeva esprimere il proprio dissenso dall'ala più intransigente del regime poteva anche votare per un presidente della repubblica o per parlamentari con orientamenti più moderati. Ora, però, questo non è più possibile: con Khamenei il regime "ha marginalizzato completamente queste figure, eliminando ogni diversità di linea", come del resto è emerso con evidenza dopo le ultime elezioni.
Riccardo Redaelli, esperto della realtà iraniana, è docente universitario alla Cattolica di Milano
L'irrigidimento del regime si innesta quindi su una devastante crisi economica: "le sanzioni, il fallimento dell'accordo sul nucleare e l'avventurismo in Medio Oriente", con tutti i suoi costi insostenibili, stanno "impoverendo drammaticamente la classe media, che era una componente benestante" di rilievo nel Paese, rammenta Redaelli. Ma un preciso livello di crisi concerne la società iraniana: infatti il nuovo presidente Ebrahim Raisi, per compiacere la Guida suprema, "ha rafforzato nuovamente tutti i controlli sulla moralità quotidiana", che spaziano dall'abbigliamento, fino all'ascolto della musica occidentale e al bando delle bevande alcoliche. Ne deriva così un clima di esasperazione: "Tutte queste cose, gli iraniani non le sopportano più", rileva l'esperto, precisando che questa insofferenza è in particolar modo pronunciata fra i giovani e le donne.
Una generazione in rivolta
Proprio su questo terreno emerge un dato generazionale decisamente inedito rispetto al passato. In Iran l'insoddisfazione è fortissima, diffusa "ma sono soprattutto i giovani che vogliono divertirsi", e ritrovarsi, a essere "esasperati da questa ossessione del regime". Ciò che colpisce, sottolinea Redaelli, è che stavolta a protestare non sono solo quei giovani universitari, espressione della borghesia iraniana. "Stanno infatti manifestando con grande forza anche ragazzini delle scuole secondarie, che non appartengono all'élite economica del Paese".
Giovani in piazza contro il regime, sull'onda delle proteste innescate dalla morte di Mahsa Arimi
Anche questo aspetto dà la misura di "quanto sia generalizzato lo scontento e la non sopportazione di queste regole sociali". Scendono così nelle piazze anche giovanissimi "di 13, 14, 15 anni che non hanno le accortezze e le paure dei loro genitori. Essi, proprio perché il Paese versa in una grave crisi, "non vedono un futuro dinanzi a loro e sono quindi disposti a correre il rischio" di scontrarsi con la reazione del regime.
La minaccia dei Pasdaran
Si spiega così l'indubbio coraggio di cui danno prova questi giovani, di fronte ad un apparato di potere che continua a essere temuto per la sua brutalità e pervasività. Ma il regime, nonostante l'elevato numero di vittime causate finora dalla sua repressione, non ha certo fatto ricorso a tutto il suo potenziale di violenza. E in questo senso a stagliarsi è l'ombra minacciosa dei Pasdaran, le Guardie della rivoluzione islamica tanto temute per il loro fanatismo e per un potere ormai considerevole nella realtà iraniana. Finora sono, per così dire, rimasti a guardare. Benché non abbiano "mai fatto mistero di essere disposti a sparare sui propri cittadini che protestano", non sono mai intervenuti direttamente contro i moti.
I Pasdaran, qui ripresi durante una parata militare, rappresentano uno dei principali puntelli del regime di Teheran
La repressione, quindi, è stata finora attuata dalle varie forze di sicurezza e dai cosiddetti Basiji, che sono miliziani volontari con compiti di supporto alla polizia e agli stessi Pasdaran, ai quali del resto sono subordinati. Ma cosa potrebbe succedere, se gli eventi dovessero assumere una piega tale da indurre le stesse Guardie della rivoluzione islamica a entrare in azione? "I Pasdaran", ricorda l'esperto, "hanno più volte minacciato" di intervenire, "hanno detto, attenti che siamo pronti...". E "se dovessero scendere direttamente ad agire per la repressione", i morti allora "diventeranno molti di più".
Repressione: impropri i paralleli con il 1978-79
Ad ogni modo il regime continua a confrontarsi a una sfida che non ha precedenti nella sua storia. Intanto la sanguinosa repressione può suggerire analogie con gli eventi legati alla nascita della stessa Repubblica islamica: quando, fra il 1978 e il 1979, l'esercito dello Scià non esitò a rivolgere le armi contro gli stessi iraniani, nel tentativo di fermare l'insurrezione che avrebbe poi rovesciato la monarchia. In che misura, allora, gli eventi in corso potrebbero assumere una valenza destabilizzante per l'attuale regime? Su questo punto Redaelli esprime cautela. "È evidente che le proteste abbiano assunto una dimensione nuova, ma c'è un'enorme differenza" rispetto agli eventi del 1978-79. In quell'epoca, ricorda, c'era infatti una dirigenza politica in esilio, con Khomeini che in base ad un cinico calcolo "aveva bisogno di morti nelle strade". C'era insomma una radicalità nella leadership dell'opposizione che spingeva gli iraniani nelle piazze. E in quel contesto "più morti c'erano, più si creava un solco" e più si incitava a "protestare e a combattere contro la Scià".
L'esercito dello Scià, che punta i fucili contro i dimostranti: un'immagine risalente al settembre del 1978, quando la monarchia tentò di stroncare l'insurrezione con le armi
Un quadro della situazione, insomma, molto diverso da quello attuale. Rispetto a quelle circostanze storiche infatti oggi "non c'è un'élite politica all'opposizione che spinge al massimalismo e che ha bisogno delle violenze". E nel Paese gli stessi riformisti, i moderati - che hanno rappresentato a lungo una sorta di opposizione tollerata - "invitano adesso alla prudenza". Questo dato rappresenta "una diversità molto forte", mentre invece "alcune similitudini" risiedono certamente nel fatto che "le violenze non stiano fermando le proteste".
L'impatto reale della protesta sul regime
Detto questo, però, la protesta potrebbe finire per alimentare divisioni all'interno dello stesso regime? La premessa da fare. secondo l'esperto, è che in Iran "il sistema di potere è tutto, tranne che unito. È sempre stato diviso in fazioni, con grandi diversità". Nel contesto attuale è quindi "evidente che c'è un'ala dialogante, che cerca di capire in parte le proteste" e un'area invece "dura e pura, che si manifesta anche con editoriali sui giornali conservatori, nei quali si invita ad una repressione brutale, ad un bagno di sangue". Questa dialettica, da un lato ha frenato una repressione ancora più dura, ma dall'altro "impedisce reali aperture, che del resto sono difficili". Le contestazioni contro il velo islamico, ad esempio, "vanno a toccare un simbolo fondamentale del sistema di potere". E poiché la Repubblica islamica ha di fatto fallito in buona parte i suoi obiettivi, diventando "quasi un guscio vuoto", sono i suoi simboli a restare "intoccabili, perché sono diventati come le scenografie di un teatro; dietro le quali non c'è nulla".
L'ayatollah Khamenei, l'attuale Guida suprema dell'Iran, qui attorniato da alti dignitari delle forze armate
Divisioni quindi ci sono, ma pur sempre nell'alveo del sistema. "Ci sono diversità, ma chi vuole la modernizzazione o chi vuole un'evoluzione nelle forme del sistema è sempre stato sconfitto, e credo che lo sarà ancora", afferma Redaelli. Sempre più forti sono i Pasdaran, divenuti ormai una sorta di Stato nello Stato, i quali "pur divisi al loro interno sulla intensità delle repressioni, sono determinati a mantenere il potere". Un potere che può permanere solo se resta in piedi il regime "e solo se soprattutto si impedisce la normalizzazione dell'Iran con l'Occidente", con la retorica di una Repubblica islamica insidiata e minacciata di distruzione. Per far passare questa narrazione "hanno bisogno della rottura con l'Occidente e con i Paesi della regione; perché se ci fosse una politica più moderata, di apertura, allora il loro strapotere, il loro controllo così ossessivo sulla società non avrebbe senso". All'orizzonte, insomma, non sembrano profilarsi "grandi possibilità di evoluzione" in senso moderato.
Un Paese alle corde
Intanto la popolazione continua a fare i conti con la precarietà. La crisi colpiva prima le fasce più deboli. Ma il sistema di potere, spiega Redaelli, era anche sempre stato "capace di pescare" in esse, attraverso pratiche e meccanismi clientelari. Ora però la crisi ha investito il ceto medio, vero e proprio nerbo dell'economia, che è stato brutalmente impoverito dall'inflazione galoppante, dalla perdita del valore della moneta e dal blocco delle importazioni legato alle sanzioni. "C'è quindi un senso di precarizzazione e di proletarizzazione del ceto medio, che spaventa tantissimo", osserva l'esperto, sottolineando il fatto che si tratta di "gente precipitata nella miseria, dopo decenni nei quali viveva mediamente bene".
La popolazione iraniana è sempre alle prese con un galoppante rialzo dei prezzi
A fronte di questa situazione, il regime può contare su uno zoccolo duro "forse di circa un quarto della popolazione", che in buona sostanza sopravvive grazie al sistema di potere della Repubblica islamica. Intanto però dal tessuto sociale emergono segnali ineludibili. Dopo 40 anni di Repubblica islamica, avanza infatti la disaffezione dalla religione, base fondante dello Stato. "Le moschee sono vuote, ci va solo gente che è obbligata, e il clero sciita, che storicamente aveva un grande carisma nel Paese, ora è detestato". Un dato evidenziato proprio "da questi giovani che prendono a schiaffi i turbanti dei religiosi".
Gli effetti della protesta
E ora? A quali scenari potrà condurre questa protesta di massa, in una realtà costellata da dinamiche di potere così complesse? Redaelli ritiene che "ad un livello profondo nulla sarà più come prima", soprattutto ragionando sul medio-lungo termine. È intanto evidente che il regime "è intrappolato nel suo stesso rigore". E i suoi slogan e imperativi sono ormai privati di quasi ogni credibilità. Di conseguenza "il no a Israele, l'obbligo del velo e il no alla cultura occidentale" si sono ridotti a "dei pilastri su cui il sistema si è impiccato". Del resto, sottolinea, ciò che teme Khamenei è che concessioni sull'uso del velo possano poi dare la stura a continue, nuove rivendicazioni "che smantellerebbero la Repubblica islamica; proprio perché dietro c'è molto poco di credibile".
Si infittiscono ora gli interrogativi sugli sviluppi della protesta e sui futuri provvedimenti delle autorità
"Io credo comunque che queste proteste, e non necessariamente per il bene, faranno cambiare la Repubblica". Ma in questo senso le prospettive non appaiono confortanti. Potrebbe infatti delinearsi una deriva "verso una parte più totalitaria e più gestita dai Pasdaran". D'altra parte, però, "proprio perché è così rigido, il sistema può favorire una crescente radicalizzazione dell'opposizione". Del resto, come già detto, se prima esisteva una diversità di vedute, espressa da una certa opposizione moderata e tollerata, ora "tutto questo non c'è più".
Dal Notiziario delle 11.00 del 12.11.22
RSI Info 12.11.2022, 12:05